Massime in materia societaria del Consiglio Notarile di Firenze.

Il Consiglio notarile dei distretti riuniti di Firenze, Prato e Pistoia, seguendo l’esempio di Milano e del Triveneto, ha istituito un’osservatorio societario volto alla elaborazione dei principi uniformi in tema di società.

Le massime  – alcune criticabili in punto di diritto – sono diventate un riferimento non solo per il notariato, ma anche per l’avvocatura specializzata in societario, e per gli operatori del diritto societario.

 

RECESSO DEL SOCIO E RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE. 

Qualora, a seguito di recesso, il rimborso del socio receduto debba essere eseguito, ai sensi degli artt. 2437 quater, sesto comma, c.c. e 2473, quarto comma, c.c., mediante riduzione del capitale sociale, la misura della riduzione imposta dal legislatore in tale occasione è pari al valore nominale della partecipazione del socio receduto che viene annullata e non all’importo che deve essere liquidato al receduto.

Qualora, a seguito di tale riduzione, il capitale sociale si riduca al di sotto del minimo legale, la società può procedere a tale riduzione purché contestualmente deliberi la trasformazione in un diverso tipo sociale compatibile con la ridotta misura del capitale ovvero proceda alla ricostituzione del capitale alla misura minima richiesta.

 

1) La fattispecie ed il quesito

Il caso oggetto della massima riguarda l’ipotesi in cui una societa’ di capitali, a seguito del legittimo esercizio del recesso da parte di un socio, si trovi nella necessita’ di dover procedere alla riduzione del suo capitale sociale per far fronte all’obbligo di rimborsare il receduto.

In questa fattispecie il quesito riguarda in particolare la misura della riduzione del capitale che il legislatore impone alla societa’ in alternativa al suo scioglimento e piu’ precisamente se la riduzione sia parametrata alla misura della somma effettivamente dovuta al socio a titolo di liquidazione della partecipazione ovvero se invece sia riferita al valore nominale della partecipazione che deve essere annullata.

Infine viene approfondito se e a quali condizioni una societa’ di capitali possa deliberare la riduzione in oggetto del capitale al di sotto del minimo di legge.

2) Premessa sistematica

La disciplina del recesso da società di capitali, a prescindere dal tipo, mira a conciliare la tutela del socio di minoranza con quella dei creditori sociali, affidando la prima all’imposizione legale di un catalogo di cause legittimanti, come tali inderogabili, e alla definizione normativa di criteri di valutazione della partecipazione; la seconda alle modalità di rimborso del socio recedente (1).

Per tale ultima finalità è imposta una sequenza cogente di tecniche di liquidazione miranti ad allocare il peso economico immediato della soddisfazione del diritto patrimoniale del socio recedente in primis su economie terze rispetto alla società (gli altri soci o terzi acquirenti); in seconda istanza, sul patrimonio della societa’ senza intaccare la misura del capitale (acquisto azioni proprie nella s.p.a.; liquidazione del receduto con riserve disponibili e ripartizione della sua quota nominale di capitale tra gli altri soci nella s.r.l.); quale terza possibilita’, perseguibile solo in caso di improcedibilità delle tre modalità propedeutiche (vendita ai soci, vendita a terzi, acquisto azioni proprie o liquidazione mediante le riserve disponibili) previste negli artt. 2437 quater e 2473 c.c., è legittimo deliberare la riduzione del capitale sociale, a cui si applica, se società per azioni, l’art.2445, secondo, terzo e quarto comma, c.c.; se società a responsabilità limitata, l’art.2482 c.c.. Quest’ultima possibilita’ di rimborso e’ peraltro l’unica che non comporta un trasferimento della partecipazione dal socio receduto ad altri soggetti bensi’ il suo annullamento.

3) Il problema della misura della riduzione del capitale qualora il valore da liquidare ecceda quello nominale della partecipazione del recedente. La soluzione consigliata.


Può accadere che, applicando i criteri di liquidazione fissati negli artt.2437 ter e 2473 c.c., la somma da rimborsare al socio recedente ecceda il valore nominale della sua partecipazione.

Prima della Riforma si sosteneva che in tale evenienza il debito da liquidazione, oltre a provocare la riduzione del capitale per il valore nominale delle azioni da annullare, assorbisse le riserve di bilancio e incidesse sul capitale sociale residuo, causando una perdita dello stesso, da trattare “alla stregua di qualsiasi altra perdita di capitale” (2).

Si ritiene di confermare, anche alla luce della nuova disciplina del recesso, tale soluzione.
Pertanto, anche qualora il valore da rimborsare al socio recedente ecceda il valore nominale della sua partecipazione, il capitale sociale potrà essere ridotto, ai sensi dell’art.2437 quater, sesto comma, c.c. e ai sensi dell’art.2473 quarto comma c.c., in misura equivalente al valore nominale della partecipazione del socio recedente, mentre l’eccedenza dovrà essere trattata come una perdita, gravante sul conto economico, tale da costringere ad un’ulteriore riduzione del capitale sociale (per perdite) solo qualora non compensata nel corso dell’esercizio sociale da riserve ulteriori o dagli utili.

4) Le motivazioni

Non pare, invece, inquadrabile nella fattispecie prevista negli artt. 2437 quater, sesto comma, c.c. e 2473 quarto comma c.c. la riduzione immediata del capitale sociale in misura equivalente alla somma da liquidare al socio receduto (e quindi anche in misura superiore al valore nominale della partecipazione del socio receduto) attuata gravando della differenza proporzionalmente le partecipazione degli altri soci.
L’esito interpretativo non è indotto da alcuna istanza di tutela del ceto creditorio, di cui si è già fatto carico il legislatore e che trova adeguata soddisfazione nell’azione di opposizione. La liberalizzazione della facoltà di riduzione reale del capitale sociale (artt. 2445 – 2482 c.c.), fondata sul giudizio, normativamente sancito, di sufficienza del diritto di opposizione, attenua la portata di obiezioni alimentate da pretese esigenze di tutela dei terzi creditori.

La conclusione appare piuttosto suffragata dall’analisi del quadro normativo di riferimento disegnato dalle disposizioni in materia di rimborso della partecipazione del socio recedente e dalla struttura dell’operazione di riduzione del capitale.
Rispetto alle società per azioni viene in gioco il più volte citato art. 2437 quater, sesto comma, c.c., ai sensi del quale “in assenza di utili e riserve disponibili, deve essere convocata l’assemblea straordinaria per deliberare la riduzione del capitale sociale, ovvero lo scioglimento”. Giova anche tenere presente che a mente del secondo comma dell’art. 2365 c.c. “lo statuto può attribuire alla competenza dell’organo amministrativo o del consiglio di sorveglianza o del consiglio di gestione …. la riduzione del capitale in caso di recesso del socio ….”.

Si può osservare che la riduzione del capitale rappresenta la meta finale di un percorso con il quale la liquidazione del socio recedente viene gestita innanzitutto come un’operazione di mercato, rispetto a cui i soci hanno il vantaggio dei diritti di opzione e di prelazione ma anche la possibilità di astenersi o disinteressarsi.

Ogni socio, infatti, ha in primis diritto di acquistare le azioni del socio receduto in proporzione alle azioni già possedute. Successivamente, l’organo amministrativo provvede al collocamento sul mercato delle azioni del recedente non acquistate dagli altri soci.
Nessun socio è tenuto a partecipare attivamente alla liquidazione delle azioni del recedente.

Qualora non si sia potuto procedere al collocamento, “le azioni del recedente vengono rimborsate mediante acquisto da parte della società utilizzando riserve disponibili”. Ai nostri fini può essere utile rilevare che una delle tecniche di annullamento delle azioni proprie è rappresentata dalla riduzione del capitale sociale. Qualora le azioni siano state acquistate, come nel caso che ci occupa, ad un prezzo (valore) superiore al valore nominale, l’eccedenza incide sulla riserva azioni proprie, giammai sul capitale sociale che viene in considerazione sempre e soltanto per il dato formale nominale (3). In altri termini la riduzione del capitale per annullamento azioni proprie avviene per la misura nominale delle azioni annullate non certo per il loro valore di acquisto.
Infine, l’art. 2365 secondo comma c.c. consente di attribuire la competenza alla riduzione del capitale in funzione del recesso all’organo amministrativo o al consiglio di sorveglianza, come sopra ricordato. In termini generali si rileva che la possibilità di attribuire competenze dell’assemblea straordinaria all’organo amministrativo si giustifica con la circostanza che si tratterebbe di deliberazioni di contenuto tale da non avere effetto sulle posizioni soggettive o sugli interessi dei soci ma aventi per lo piu’ ambito gestionale (4).
Ne consegue che la riduzione del capitale in caso di recesso del socio non interferisce con le posizioni degli altri soci solo se contenuta, al massimo, entro il valore nominale delle azioni del socio recedente.
In tale prospettiva si può rilevare che la riduzione del capitale disciplinata nell’art. 2437 quater sesto comma c.c. risulta pertanto funzionale esclusivamente all’annullamento delle azioni del socio recedente, e prescinde, nel suo ammontare, dal valore effettivo di liquidazione. Cio’ perche’ per dare esecuzione al rimborso del socio non vi sono ormai altre strade percorribili per la societa’ se non annullare la partecipazione del socio receduto, posto che – necessariamente – non hanno avuto successo i tentativi di allocare presso gli altri soci o i terzi le azioni de qua ne’ la societa’ era in condizione di rendersene acquirente in proprio. La partecipazione del socio deve essere annullata e dunque il capitale deve registrare questo mutamento nominale.
Il legislatore mostra di disinteressarsi del tutto in questa sede della misura dell’effettivo esborso che la societa’ dovra’ corrispondere al socio receduto e di come essa si procurera’ la disponibilita’ finanziaria, limitandosi a fissarne i criteri di determinazione e preoccupandosi invece di tracciare i “paletti” entro cui la societa’ deve operare a seconda delle modalita’ operative prescelte per liquidare il socio. In questo senso infatti si puo’ osservare che nessun limite viene posto, e’ ovvio, fintanto che la questione viene risolta attraverso il trasferimento delle azioni del receduto ai soci o ai terzi, trattandosi di res inter alios rispetto alla societa’; limitazioni quantitative (riserve disponibili e utili) vengono poste invece alla (successiva) possibilita’ di procedere all’acquisto azioni proprie, per simmetria con quanto previsto in via generale dagli artt. 2357 e ss.; nell’impossibilita’ poi di ricorrere a tali preventive tecniche di liquidazione, il legislatore impone agli amministratori di convocare l’assemblea perche’ deliberi, in alternativa, la riduzione del capitale sociale – qualora intenda comunque liquidare il socio – ovvero lo scioglimento della societa’ – nel caso ritenga di non voler procedere alla liquidazione e continuare l’attivita’ sociale -. Ma, nel caso qui esaminato di riduzione del capitale, trattasi di delibera volta unicamente a fissare il nuovo ammontare del capitale dopo l’annullamento della partecipazione del receduto, lasciando del tutto impregiudicata la misura del rimborso e delle sue modalita’ concrete.
Certamente l’obbligo di corrispondere al socio il valore della sua quota comporta per la societa’, sul momento, una passivita’ ma non e’ detto che essa si traduca necessariamente in una perdita di esercizio che imponga alla societa’ di operare “nuovamente” sul capitale. Cio’ avverra’ solo se tale perdita risultera’ incidere in via definitiva sul capitale residuo e solo nei limiti in cui cio’ dovesse effettivamente avvenire, con applicazione delle ordinarie regole di cui agli artt. 2446 e 2447 C.C. Ad esempio, si puo’ ipotizzare che la societa’ abbia riserve non disponibili tali da rendere irrilevante, sotto tale profilo, la passivita’ che dunque non andrebbe ad incidere sul capitale.

Per conferma di quanto sin qui sostenuto, si pensi al caso inverso in cui il valore della partecipazione del socio receduto sia inferiore al suo valore nominale: pare doversi sostenere che anche in tal caso la misura della riduzione del capitale che l’assemblea e’ chiamata a deliberare sia comunque pari al valore nominale delle azioni annullate, restando del tutto al di fuori della delibera la misura dell’effettivo esborso dovuto al socio. L’eventuale differenza tra valore nominale della riduzione e valore da liquidare al socio dovrebbe essere appostato a riserva (5).

In definitiva, anche qualora il valore da liquidare al socio recedente sia superiore al valore nominale delle sue azioni, il capitale di una società per azioni può – rectius, DEVE – essere ridotto in virtù dell’art.2437 quater c.c. per il valore nominale.
Problema del tutto diverso e che non forma oggetto del presente elaborato e’ quello che riguarda il reperimento della concreta disponibilita’ finanziaria con cui la societa’ procedera’ alla materiale corresponsione delle somme dovute al socio: basti qui ricordare che l’utilizzo delle poste di bilancio (riseve, utili o capitale) imposto dalla legge nelle varie tecniche di rimborso costituisce mero adempimento contabile ma non garantisce alla societa’ che a fronte di tali voci esistano effettivamente le risorse finanziarie necessarie, per cui essa potrebbe essere costretta a ricorrere ugualmente a finanziamenti da parte dei soci o di terzi (ad es. banche) per adempiere al debito. Oppure, al contrario, ben potrebbe accadere che pur in assenza di tali poste, la societa’ abbia in cassa disponibilita’ sufficienti per cui non dovrebbe ricorrere a finanziamento alcuno potendo invece adempiere con mezzi propri.

Passando alla disciplina della società a responsabilità limitata, l’art. 2473 quarto comma c.c. prevede anche qui una serie di passaggi obbligati cui la societa’ deve attenersi nella liquidazione della partecipazione del socio receduto. In primo luogo, come per le s.p.a., si prevede che la quota del receduto venga acquistata dagli altri soci o da un terzo indicato di comune accordo dai soci; in mancanza, che la quota venga liquidata dalla societa’ mediante utilizzo di riserve disponibili (e la quota, stante il divieto di cui all’art. 2474 c.c., venga ripartita tra gli altri soci in proporzione alle rispettive partecipazioni); se anche questa modalita’ non e’ utilizzabile, occorre che gli amministratori convochino l’assemblea per deliberare la “corrispondente” riduzione del capitale.

La lettera della norma sembra aprire un varco alla possibilità di ridurre il capitale in misura equivalente al valore da rimborsare al socio recedente, anche se eccedente il valore nominale della partecipazione di quest’ultimo (6). 
Si ritiene tuttavia che la valenza normativa dell’avverbio “corrispondentemente” non vada enfatizzata, in quanto l’espressione potrebbe ellitticamente riferirsi, in maniera più appropriata, alla partecipazione del socio recedente piuttosto che al valore di liquidazione della stessa. Dal punto di vista sintattico, infatti, non può esservi un legame logico, se non apparente, fra il “rimborso” e la “riduzione corrispondente” del capitale, poiché il primo sostantivo non segna l’entità della riduzione, ma solo il fine di quest’ultima, che deve essere rapportata, alternativamente, al valore della quota di patrimonio sociale da rimborsare o al valore nominale della partecipazione sociale da rimborsare. Ammesso ciò, nulla induce a ritenere che non possano estendersi alla società a responsabilità limitata le considerazioni svolte con riferimento alla società per azioni, identiche essendo la ratio e la natura dell’operazione.

In tal senso milita anche la constatazione che molte delle apparenti differenze di disciplina fra i due tipi societari in merito al rimborso della partecipazione del socio recedente risultano oggi ridotte dall’opera interpretativa della dottrina (7).
Anche con riferimento alla s.r.l., pertanto, la riduzione del capitale appare finalizzata al solo scopo di far risultare l’annullamento della partecipazione del socio recedente, e quindi il capitale dovrà essere ridotto in misura corrispondente al valore nominale della quota del recedente medesimo.

Un’ulteriore conferma dell’ammontare della riduzione parametrato al valore nominale della partecipazione del socio recedente, con notazione comune a s.p.a. ed s.r.l., puo’ forse essere rinvenuta nella circostanza che in entrambi i casi la riduzione deve essere operata con riferimento alle norme dettate in tema di riduzione effettiva del capitale (artt. 2445 e 2482 c.c.), ipotesi tutte in cui la riduzione avviene sempre per un valore nominale del capitale (8).

5. Il limite dell’ammontare minimo del capitale sociale. Una prima soluzione.

Sebbene sussista un contrasto dottrinale sul punto( 9), si ritiene che la riduzione del capitale sociale nominale in funzione del rimborso del socio receduto possa essere deliberata qualora abbassi il medesimo ad una cifra inferiore al minimo legale, purche’ vengano adottati alcune cautele.
In primo luogo sembra sicuramente legittima tale delibera di riduzione al di sotto del minimo legale purche’ sia contestualmente deliberata la trasformazione in altro tipo sociale che richiede un capitale minimo inferiore o che non impone alcun minimo di capitale.

Non si ritiene infatti che il rinvio operato negli artt. 2437 quater, sesto comma e 2473 quarto comma c..c alla disciplina contenuta, rispettivamente, negli artt. 2445 e 2482 c.c. possa legittimare la tesi per la quale la riduzione del capitale per recesso di socio trova in ogni caso un limite nel rispetto della misura minima del capitale sociale imposta per il singolo tipo (10).

Tale affermazione e’ certamente vera in caso di riduzione volontaria, cioe’ scaturente unicamente da una scelta operata liberamente dall’assemblea dei soci. In realta’, puo’ dubitarsi che la fattispecie in esame sia una riduzione volontaria in quanto trattasi di una delibera necessitata dall’obbligo di liquidare il socio recedente. In questo la diversita’ di presupposti e di conseguenze rispetto alla riduzione per libera scelta dei soci pare evidente.
In primo luogo, come in precedenza detto, la riduzione del capitale ex artt. 2437 quater e 2473 c.c. si inserisce in un procedimento imposto dal legislatore nell’ambito delle tecniche di liquidazione del rimborso al socio recedente, le cui fasi sono sottratte alla libera determinazione dei soggetti coinvolti nel senso che si tratta di passaggi obbligati legati da un ordine non alterabile. La decisione di ridurre il capitale dunque e’ un obbligo per la societa’ (“…deve essere convocata l’assemblea per deliberare la riduzione…”) quando nessuno degli altri strumenti di liquidazione risulta percorribile per giungere alla liquidazione del socio ed e’ l’unica alternativa allo scioglimento della societa’.
In secondo luogo, la riduzione deve essere deliberata quando la societa’ presenta gia’ una passivita’, pari al debito verso il socio receduto, che e’ ormai determinato nel suo ammontare e certo nella sua esistenza. Nella riduzione ex art. 2445 c.c. il debito verso i soci sorge, eventualmente, solo a posteriori allorche’ l’assemblea abbia deliberato la riduzione ed il rimborso dei soci, a condizione che non vi sia opposizione dei creditori. Nella riduzione per recesso invece la delibera viene assunta a fronte di un debito preesistente che ne e’ il presupposto determinante.
In terzo luogo, mentre nella riduzione volontaria l’opposizione vittoriosa dei creditori determina l’inefficacia della riduzione del capitale, che dunque rimane invariato nella misura precedente, e la normale continuazione della societa’ nella sua attivita’ di impresa, nella riduzione per recesso la conseguenza della vittoriosa opposizione dei creditori e’ stabilita dalla legge nello scioglimento della societa’ e nella sua messa in liquidazione.
Una tale diversita’ di presupposti e di conseguenze induce a ritenere che si tratti, appunto, di due fenomeni non sovrapponibili se non per la tecnica adottata dal legislatore al fine di rendere efficace la riduzione.
Il rinvio alla disciplina di cui agli articoli 2445 e 2482 c.c. sembra doversi giustificare allora solo nella dichiarata intenzione del legislatore di contemperare il diritto del socio recedente alla liquidazione della partecipazione che da’ motivo alla riduzione con la tutela dei terzi creditori che vi si possono opporre.
In tale evenienza, salvo quanto in seguito sara’ precisato, una strada percorribile è rappresentata dallo scioglimento della società, con conseguente apertura della fase di liquidazione: sorte che, secondo la tesi sopra enunciata sembra inevitabile per le società con capitale minimo qualora non sia stato possibile il rimborso del socio recedente sulla base delle prime tre tecniche di liquidazione annoverate negli artt.2437 quater e 2473 c.c..
Secondo invece la tesi qui sostenuta, se una societa’ risulta dotata di un capitale minimo e si trova a doverne deliberare la riduzione per poter procedere alla liquidazione del socio receduto, non si ritiene tale delibera contra legem con conseguente necessaria apertura della liquidazione bensi’ lecita, nei limiti in cui l’esito della deliberazione non sia l’introduzione nell’ordinamento di un tipo sociale dotato di un capitale inferiore al minimo di legge. Una soluzione alternativa allo scioglimento pare cioe’ offerta dagli artt. 2447 e 2482 ter c.c., che, al fine di evitare lo scioglimento per mancanza di (ri)capitalizzazione per un importo equivalente a quello imposto dalla legge, consentono la trasformazione della società.

Nella circostanza, a ben vedere, si intende evitare il medesimo risultato, ovvero lo scioglimento sancito negli artt. 2437 sesto comma e 2473 quarto comma c.c. come extrema ratio della liquidazione del receduto, senza ledere alcun diritto, né quello dei terzi creditori, né quello dei soci.
La trasformazione non risulta mai lesiva degli interessi dei primi. Anche caso di trasformazione eterogenea, infatti, i creditori hanno il diritto di opposizione ai sensi dell’art. 2500 novies c.c., il cui termine è contenuto in quello loro riconosciuto dagli artt. 2445 – 2482 c.c. (60 giorni contro 90) e comunque normalmente aggiunge alla ineliminabile responsabilita’ della societa’ per le obbligazioni pregresse l’ulteriore responsabilita’ patrimoniale illimitata di tutti o parte dei soci.

La trasformazione, inoltre, non risulta lesiva dei diritti dei soci se assunta nel rispetto dei quorum e munita delle manifestazioni di volontà individuali previste dalla legge per i soci che assumono responsabilita’ illimitata nel nuovo tipo sociale.
Piu’ problematica appare la pratica concatenazione delle delibere di riduzione del capitale e di trasformazione.

Se si ammette la legittimita’ delle delibere condizionate (11), pare corretta l’assunzione da parte dell’assemblea di una delibera di riduzione del capitale sociale a fronte del recesso del socio, sospensivamente condizionata ex lege alla mancata opposizione da parte dei creditori sociali, con ulteriore delibera di trasformazione condizionata, oltre che alle ordinarie condizioni di legge, al prodursi degli effetti della preventiva delibera di riduzione e destinata a divenire efficace solo a partire da tale momento.

Qualora invece si ritenga non lecita l’assunzione di una delibera di trasformazione condizionata in tal modo, la soluzione operativa ipotizzabile sarebbe quella di invertire l’ordine delle deliberazioni.
In altri termini, e’ vero che la delibera di trasformazione e’ indotta unicamente dalla necessita’ che la societa’ possa legittimamente continuare ad operare con un capitale ridotto e che dunque i soci, verosimilmente, non la assumerebbero se non vi fosse la riduzione. Ma la problematicita’ di una delibera di trasformazione condizionata alla preventiva riduzione del capitale, a sua volta condizionata alla mancata vittoriosa opposizione dei creditori, impone che la scelta del nuovo tipo sociale debba essere operata immediatamente, a prescindere cioe’ dalla circostanza che poi il capitale venga effettivamente ridotto.

L’assemblea dovra’ pertanto deliberare in primo luogo la trasformazione della societa’ e subito dopo la riduzione del capitale ex art. 2437 quater o 2473. La nuova veste giuridica verra’ assunta in maniera irreversibile e, se la riduzione diverra’ operativa, la (nuova) societa’ continuera’ la sua normale attivita’ di impresa mentre, se dovesse esservi opposizione, se ne determinera’ lo scioglimento previsto dagli articoli 2437 quater e 2473.

6. L’ipotesi della riduzione al di sotto del minimo legale ed il contestuale aumento almeno fino al minimo legale.


Ma andando oltre e valorizzando la diversita’ di presupposto che sta alla base della riduzione ex artt. 2437 e 2473 quater rispetto a quelle volontarie ex artt. 2445 e 2482 quale sopra illustrata e la diversita’ di conseguenze, sulla scorta di parte della dottrina (12), si ritiene possibile una delibera di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale con contestuale aumento almeno fino al minimo legale, con applicazione analogica degli articoli 2447 e 2482ter, sopra gia’ ritenuti applicabili alla fattispecie per quanto riguarda la trasformazione regressiva in alternativa allo scioglimento. Certamente non siamo in presenza di perdite accertate e dunque la riduzione e’ una riduzione reale del capitale, non formale. Ma, come detto, la riduzione e’ inserita in un procedimento cogente imposto dal legislatore subordinata alla mancata opposizione vittoriosa dei creditori sociali. Ed e’ una riduzione che viene assunta presupponendo se non una perdita, una passivita’ rappresentata da un debito verso il socio.

La delibera, in tal caso, oltre alla riduzione ex art. 2437 quater o ex art. 2473 del capitale al di sotto del minimo legale, dovrebbe contenere la delibera di contestuale ricostituzione del capitale almeno al minimo di legge. Analogamente a quanto sopra detto per la trasformazione, la delibera di riduzione e ricostituzione deve essere articolata unitariamente in maniera che la sua esecuzione porti almeno al mantenimento del minimo di capitale.

Si ritiene dunque che siffatta deliberazione sia legittima qualora risponda una duplice condizione:
a) che l’aumento del capitale sociale, da deliberarsi contestualmente alla riduzione e condizionato alla preventiva esecuzione di quest’ultima, sia immediatamente sottoscritto e liberato per almeno il venticinque per cento in via anticipata in assemblea;
b) che tutti i soci partecipino all’aumento del capitale sociale in proporzione alle quote possedute o comunque dichiarino di rinunciare al diritto di sottoscrivere e quindi al mantenimento della proporzionalità.
Infatti, la prima condizione consente di affermare il rispetto sostanziale del divieto di riduzione reale del capitale sociale al di sotto del minimo legale sancito dalla legge dal momento che, ad esecuzione della riduzione, diviene immediatamente efficace l’aumento, per giunta gia’ eseguito in via anticipata dai soci in assemblea; la seconda evita di eludere, a discapito della minoranza, la disposizione secondo la quale il rimborso del socio receduto può avvenire mediante acquisto da parte degli altri soci, purché sia rispettato il principio di proporzionalità fra gli stessi. (13)

Piu’ problematica appare la possibilita’ che l’aumento di capitale in ricostituzione al minimo venga solo deliberato e non anche contestualmente eseguito. In questo caso, infatti, la societa’ sembrerebbe venire a trovarsi in una condizione di sottocapitalizzazione rispetto al minimo, non ammissibile in linea di principio per l’ordinamento.

A questo potrebbe obiettarsi pero’:

1. che la legge ammette che una societa’ di capitali possa temporaneamente versare in uno stato di sottocapitalizzazione nei casi degli artt. 2447 e 2482 ter fintanto che non vengano assunti gli opportuni provvedimenti di ricapitalizzazione: dunque non e’ una condizione inammissibile in assoluto se destinata ad essere rimossa entro breve tempo;

2. che addirittura tale condizione e’ ammessa anche in presenza di azzeramento del capitale sociale ;

3. che se la riduzione al di sotto del minimo legale deriva da perdite inferiori al terzo, la societa’ potrebbe stabilmente, sia pure eccezionalmente, permanere in tale condizione;

4. che per ovviare comunque a tale obiezione, potrebbe ammettersi la possibilita’ di una sottoscrizione non contestuale ma non procrastinabile oltre il momento della produzione degli effetti della riduzione, che e’ subordinata alla mancata vittoriosa opposizione dei creditori.
 In questo modo se la riduzione e’ destinata a divenire operante soltanto dopo o al piu’ contestualmente all’avvenuta esecuzione dell’aumento in ricostituzione, la societa’ non verrebbe mai a trovarsi in uno stato di effettiva sottocapitalizzazione se non per un istante ideale proprio come nel caso esaminato in precedenza;

5. opinare diversamente comporterebbe l’obbligo per la societa’ di adottare la delibera di riduzione e ricostituzione del capitale al minimo legale alla necessaria presenza in assemblea di tutti i soci che sarebbero costretti a dover dare immediata esecuzione almeno per l’importo necessario alla copertura del minimo di legge comprimendo quindi il diritto di opzione che spetta a ciascun socio.
La delibera di aumento e la sua eventuale esecuzione sarebbero ovviamente condizionate alla preventiva esecuzione della riduzione ex artt. 2437 quater e 2473 C.C. con la conseguenza che in caso di opposizione vittoriosa l’aumento dovrebbe ritenersi come non deliberato e le somme versate in sua sottoscrizione dai soci dovrebbero essere restituite loro “in prededuzione”, fuori cioe’ del procedimento di liquidazione che verrebbe ad instaurarsi.

Infine da notare che se l’aumento non andasse a buon fine, dal momento che esso costituisce condizione della legittimita’ della delibera di riduzione a monte ed elemento indefettibile della unitaria fattispecie in esame rappresentata dalla riduzione e contestuale aumento al minimo di legge, si deve ritenere che la conseguenza sia lo scioglimento della societa’ come lo e’ in tutti i casi in cui l’assemblea, convocata, non abbia dato corso alla riduzione. Ad esempio per mancato raggiungimento del quorum necessario. O come anche accade in caso di opposizione che rende impossibile la riduzione e dunque la liquidazione del socio.

Conclusioni

Si ritiene conclusivamente di dover affermare che la misura della riduzione del capitale prevista ai sensi dell’art. 2437 quater, sesto comma, c.c. per le societa’ per azioni e ai sensi dell’art. 2473 quarto comma c.c. per le societa’ a responsabilita’ limitata sia, in quanto tale, comunque rapportata alla misura nominale della partecipazione del socio receduto che deve essere a tal fine annullata.

La differenza effettivamente dovuta al socio rispetto al nominale dovra’ essere considerata nel patrimonio della societa’ o come una fonte di perdite potenzialmente –ma non necessariamente- destinate ad incidere ulteriormente sul capitale sociale secondo le normali regole degli articoli 2446, 2447, 2482 bis e 2482 ter c.c. (se l’importo e’ superiore al nominale) ovvero come elemento che da’ vita ad una riserva del netto (se l’importo dovuto e’ inferiore al nominale).

Il carattere obbligato di tale riduzione comporta che, se per effetto di essa il capitale si riduce al di sotto del minimo di legge, contestualmente alla riduzione debba essere deliberata ed eseguita la ricostituzione al minimo o la trasformazione in altro tipo compatibile con il capitale ridotto applicando in via analogica la disciplina dettata in materia di riduzione per perdite.

 

(1) In generale, per una panoramica sull’istituto del recesso a seguito della riforma del diritto societario, si e’ fatto riferimento a: P. Revigliono, Il recesso nella società a responsabilità limitata, Milano, 2008, P. Piscitello, Recesso ed esclusione nella s.r.l., in Il nuovo diritto delle societa’. Liber amico rum Gian Franco Campobasso diretto da Abbadessa e Portale,, 3, Milano 2007; F. Magliulo, Il recesso e l’esclusione in La riforma delle societa’ a responsabilita’ limitata, a cura di C. Caccavale, F. Magliulo, M. Maltoni, F. Tassinari, Milano 2007, C.A. Busi, SpA- Srl Operazioni sul capitale, Milano 2004 . Prima della riforma per le problematiche in tema di recesso, G. Grippo, Il recesso del socio, in Trattato delle societa’ per azioni diretto da Colombo e Portale, Torino 1994, pp. 185 e ss; per la lucida analisi in tema di riduzione da recesso vedi R. Nobili-M. S. Spolidoro, La riduzione del capitale, in Trattato delle societa’ per azioni diretto da Colombo e Portale, Torino 1994, pp. 432 e ss. Per l’analisi del problema specifico della riduzione del capitale sociale a seguito del recesso di socio nelle societa’ di capitali, oltre alle opere citate supra di Revigliono e Magliulo, vedasi in particolare E.Tradii, Le operazioni sul capitale sociale: casi pratici e tecniche di redazione del verbale notarile ne I quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, Milano 2008.

(2) Nobili- Spolidoro, op. cit., p. 443.

(3) Sulle problematiche anche contabili connesse alla riduzione del capitale per annullamento azioni proprie rispetto alla misura del capitale sociale ed alle registrazioni delle riserve connesse, vedasi per tutti R.Nobili – M.S. Spolidoro, Casi vari di riduzione del capitale sociale – Azioni proprie in Trattato delle societa’ per azioni diretto da Colombo e Portale, Torino 1994, pp. 408 e ss.

(4) In generale per un’analisi dell’art. 2365 II° c. C.C. vedasi Santosuosso, La riforma del diritto societario, Autonomia privata e norme imperative nei dd. Lg.17 gennaio 2003 nn. 5 e 6, Milano, 2003, p. 105 e ss; Pasquariello, sub artt. 2364- 2366 in Il nuovo diritto delle societa’, Commento sistematico al D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6 aggiornato al D. Lgs. 28 dicembre 2004 n. 310, a cura di Maffei Alberti, Padova, 2005, I, 451.

(5) In tal senso il principio contabile OIC n. 28 “La formazione e le variazioni delle poste del patrimonio netto” – II° Le variazioni del capitale sociale ove, in tema di riduzione del capitale per recesso del socio, si chiarisce che la riduzione deve essere operata “per un importo corrispondente alla quota posseduta dal socio uscente. In caso di rimborso superiore al valore nominale la differenze deve gravare sugli utili e sulle riserve disponibili o, in mancanza, deve essere convocata l’assemblea straordinaria per deliberare la (ulteriore, ndr) riduzione del capitale sociale ovvero lo scioglimento della societa’”. In nota si precisa altresi’ coerentemente che se le riserve sono insufficienti la differenza grava sul conto economico e che nell’ipotesi in cui il corrispettivo del recesso sia inferiore al valore nominale la differenza verra’ accreditata alle perdite a nuovo o a riserva.

(6) In questo senso da ultimo E.Tradii, op. cit, pp.130 e ss.

(7) P.Revigliono, op. cit., p.350 e p.359. Si ritiene, infatti, che il diritto ad acquistare proporzionalmente la partecipazione del socio recedente non possa essere inteso come “vero e proprio diritto (assoluto) del socio”, e che pertanto, alla stregua di quanto previsto nella s.p.a., “non sia affatto necessario il consenso unanime dei soci per realizzare un acquisto non proporzionale della quota del recedente”; che, infine, a dispetto del tenore letterale, lo scioglimento della società non presupponga necessariamente la riduzione del capitale, così come avviene nella s.p.a., nella disciplina della quale le due soluzioni (riduzione del capitale e scioglimento) sono poste in posizione alternativa.

(8) L’affrancamento della riduzione reale del capitale sociale dal requisito dell’esuberanza e la possibilità, ammessa dalla dottrina dominante, di imputare a riserva il valore corrispondente alla riduzione, senza procedere ad alcun rimborso ai soci ma dando luogo alla sola rideterminazione delle poste del patrimonio netto, inducono a ritenere legittima l’assunzione, contestualmente alla delibera di riduzione del capitale ex artt.2437 quater sesto comma c.c. e 2473 quarto comma c.c., di un’ulteriore delibera di riduzione reale del capitale sociale per un importo corrispondente all’eccedenza del valore di liquidazione del socio recedente rispetto al valore nominale della partecipazione di quest’ultimo annullata con la precedente operazione di riduzione del capitale sociale.

Dopo aver deliberato la riduzione del capitale ex artt.2437 quater sesto comma c.c. e 2473 quarto comma c.c., i soci potrebbero dunque deliberare un’ulteriore riduzione del capitale, soggetta alla disciplina degli artt. 2445 o 2482 c.c., da attuarsi mediante accantonamento a riserva, al fine di liberare risorse sufficienti a consentire la liquidazione del socio receduto per quanto non soddisfatto con la prima riduzione del capitale.

Si tratterebbe, a tutti gli effetti, di una riduzione reale del capitale di natura ordinaria, gravante su tutti i soci (diversi dal recedente) in proporzione alle partecipazioni possedute; la riserva così costituita, senz’altro disponibile, potrebbe essere utilizzata dagli amministratori per liquidare il socio recedente. Tale delibera di riduzione dovrebbe essere doppiamente condizionata:

a) ex lege, all’opposizione dei creditori, che opererebbe in via autonoma rispetto al medesimo diritto che gli stessi creditori vantano nei confronti della delibera di riduzione assunta ex art.2437 quater sesto comma o ex art.2473 quarto comma, ragion per cui quei creditori potrebbero opporsi alla delibera in oggetto e non a quella assunta ex artt. 2437 – 2473;

b) volontariamente, alla condizione della mancata opposizione dei creditori alla delibera assunta ex artt. 2437 – 2473 c.c..

E’ certamente legittimo anche che la riduzione ex 2445 venga deliberata in via strumentale con conseguente creazione di riserva disponibile che la societa’ potra’ utilizzare quale provvista NON per liquidare il socio post riduzione ex 2437 o 2473 bensi’ PRIMA, attraverso l’acquisto azioni proprie o la ripartizione della quota di srl tra i soci superstiti.

(9) Prima della riforma sostenevano apertamente questa possibilita’ R.Nobili- M.S.Spolidoro, op. cit., p. 442 e nota 37 e 38 ove ampi riferimenti bibliografici; nel vigore dell’attuale disciplina del recesso, vedansi Revigliono, op. cit., p. 360 nota 121; D. Galletti, Commento all’art. 2482ter c.c., in Codice commentato delle srl, diretto da P. Benazzo S. Patriarca, Milano 2006, p. 506 e ss e 508; contra Magliulo, Il recesso e l’esclusione cit, p. 237 che afferma la impossibilita’ di deliberare la riduzione al di sotto del minimo legale e dunque sostiene in tale caso la necessaria conclusione del

(10) Cosi’ invece Magliulo, op. loc. ult. cit.

(11) Sul punto da ultimo lo studio della Commissione Studi d’Impresa del CNN ad opera di Mario Stella Richter n. 50-2009/I La condizione e il termine nell’atto costitutivo delle società di capitali e nelle deliberazioni modificative.

(12) V.Salafia, Scioglimento e liquidazione delle societa’ di capitali, in Le societa’, 2003, p. 378; Revigliono, op. cit. p. 360; Galetti, op. cit. p. 508; Tradii, op. cit. p. 132.

(13) A ben vedere, alle condizioni predette la soluzione di procedere alla riduzione del capitale con contestuale aumento del medesimo non determina risultati economici diversi dall’acquisto diretto o indiretto (mediante un versamento a patrimonio funzionale alla creazione di una riserva disponibile) da parte degli altri soci, finendo per allocare il costo del rimborso sulle medesime economie esterne alla società. I soci, in altri termini, così come sono disposti a sottoscrivere e liberare un aumento di capitale per rimborsare il socio receduto, con lo stesso esborso potrebbero acquistare la partecipazione direttamente da quest’ultimo; o, altrimenti, procedere ad un versamento a patrimonio in conto capitale funzionale alla formazione di una riserva disponibile.
Nessuna norma, infatti, preclude ai soci la possibilità di tornare sui loro passi, a seguito di mutamenti dello scenario, e di procedere quindi all’applicazione di una delle tecniche di rimborso in precedenza scartate.
Cosicché è difficile ravvisare ragioni di opportunità tali da consigliare come unica via quella di procedere alla riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale con contestuale aumento alle condizioni indicate, nemmeno nel caso, che talvolta la prassi segnala, di socio receduto riottoso a stipulare il contratto di cessione delle partecipazioni, ostacolo a cui si può ovviare, oltre che con gli ordinari strumenti di coercizione legale, anche mediante un versamento a patrimonio, a cui seguirà il rimborso del socio receduto con la riserva disponibile così formata e l’accrescimento pro quota della sua partecipazione agli altri soci.

 

RIDUZIONE REALE DEL CAPITALE SOCIALE ED ASSEGNAZIONE AI SOCI DI BENI IN NATURA.

Nello statuto di una società di capitali, è da ritenere ammissibile la clausola che consenta la riduzione del capitale sociale mediante l’assegnazione di beni in natura.
Tale clausola, manente societate, può essere inserita nello statuto a maggioranza.
In presenza della suddetta clausola, la delibera di riduzione potrà essere assunta dai soci a maggioranza purché non violi il principio della parità di trattamento tra soci.

1) La fattispecie ed il quesito

Esaminando le norme ante e post riforma in materia di riduzione reale del capitale sociale e la terminologia utilizzata dal legislatore, potrebbe ricavarsi la conclusione che quest’ultimo abbia voluto prevedere come regola quella del rimborso in denaro, indipendentemente dal tipo di conferimento effettuato dal socio.

Attraverso le riflessioni del presente lavoro si è cercato di verificare se possa sussistere una ulteriore modalità di riduzione, ovvero se sia possibile eseguire la riduzione mediante l’assegnazione di beni in natura.

Le opinioni espresse sono alquanto difformi.

2) La tesi negativa
In giurisprudenza i provvedimenti di cui si ha notizia sono tutti antecedenti alla riforma.
Una precisa presa di posizione in senso negativo è stata adottata dal Tribunale di Rovereto che, in

un datato provvedimento, nella motivazione così recitava: “La clausola statutaria che, in caso di riduzione del capitale per esuberanza, ne prevede il rimborso anche mediante assegnazione di beni sociali, in quanto viola il principio della parità di trattamento dei soci, è illegittima”, dando quindi per scontato che una clausola siffatta porti inevitabilmente ad una disparità di trattamento tra i soci (1).

Sulla stessa scia, anche se con una apertura possibilista, è una successiva pronuncia del Tribunale di Napoli il quale, pur respingendo l’omologa, tuttavia ammette in via astratta l’ammissibilità di una tale operazione a condizione – al fine di evitare una possibile disparità di trattamento dei soci – di una preventiva indicazione dei mezzi e degli adempimenti da adottare, indicati in quelli di cui all’art. 2440 cod. civ. riguardo ai conferimenti in natura (2).

Anche secondo il Tribunale di Roma “la riduzione può eseguirsi mediante proporzionale assegnazione ai soci di beni sociali, purché si tratti (a pena di nullità della deliberazione) di beni fungibili aventi un prezzo corrente, risultanti da listini di borsa il cui valore sia perciò obbiettivamente e sicuramente accertato….” (3).

In dottrina vi è una linea di pensiero che è decisamente contraria e che vede tale operazione con sospetto. Secondo tali Autori la delibera di riduzione del capitale sociale mediante restituzione di beni in natura ai soci non è da ritenersi legittima anzitutto perché in contrasto con il dato letterale: l’art. 2445 parla di “rimborso del capitale”, l’art. 2482 di “rimborso ai soci delle quote pagate”, lasciando intendere che si tratti sempre di una somma di denaro come bene fungibile per eccellenza. La infungibilità e la eterogeneità dei beni da assegnare ai soci sarebbe in contrasto con il sistema come sopra delineato (4).

In secondo luogo un rimborso tramite restituzione di beni sociali potrebbe integrare una chiara violazione dell’art. 2280, comma 1°, cod. civ. secondo il quale “i liquidatori non possono ripartire tra i soci, neppure parzialmente, i beni sociali finché non siano pagati i creditori della società o non siano accantonate le somme necessarie per pagarli” (5).

Anzi una delibera che prevedesse una riduzione del capitale mediante assegnazione di beni in natura, secondo un Autore, ben potrebbe essere strumentalizzata per fini sostanzialmente in frode ai creditori attraverso una anticipata ripartizione del capitale immediatamente antecedente alla messa in liquidazione (6).

Inoltre tale modalità porterebbe ad una lesione del principio di parità di trattamento dei soci perché non consentirebbe di valutare con precisione il valore dei beni da attribuire: potrebbe, pertanto accadere che il bene restituito possa avere al momento del rimborso un valore venale ben maggiore di quello con il quale inizialmente è stato iscritto come posta attiva in bilancio (7).

Al massimo “si può ritenere legittima tale operazione solo se i beni da assegnare ai soci sono fungibili ed hanno un prezzo corrente (ad esempio le azioni di società quotate) risultanti da listini di borsa o da mercuriali e che tali beni siano valutati, ai fini del rimborso, secondo tali valori” (8).

Sostanzialmente, secondo tale movimento di pensiero, alla eseguibilità di operazione siffatta si frapporrebbero due ostacoli probabilmente insuperabili: il rispetto della parità di trattamento dei soci e l’osservanza del principio per cui il valore del rimborso non deve eccedere l’entità della riduzione nominale del capitale. Il primo non sarebbe sempre superabile in quanto non facilmente inquadrabile in un ordinamento come quello delle società retto dal principio maggioritario; il secondo potrebbe essere superato solo forzando il sistema attraverso una interpretazione analogica delle norme a tutela della effettività del conferimento in sede di costituzione (9) e, comunque, vi sarebbe una seria difficoltà ad individuare criteri di valutazione dei beni da assegnare sufficientemente oggettivi (10).

3) La tesi favorevole
In senso favorevole all’assegnazione di beni in natura, è invece altra parte della giurisprudenza di

merito e larga parte della dottrina (11). 
In giurisprudenza è da segnalare la posizione assunta dal Tribunale di Udine il cui decreto, di data sempre anteriore alla riforma, così recita: “E’ legittima e quindi può ordinarsene l’iscrizione nel registro delle società, la deliberazione con cui l’assemblea straordinaria di una società di capitali riduce il capitale per esuberanza procedendo al rimborso dei soci mediante assegnazione di beni in natura” (12).

In dottrina, da parte dei sostenitori di tale soluzione, anzitutto si nega che l’espressione “rimborso” utilizzata dal legislatore possa essere presa ad elemento decisivo per sostenere che la liquidazione della quota di capitale al socio, in caso di riduzione reale, debba essere effettuata esclusivamente in denaro. Non ci sono elementi che impongono una tale procedura (13), né esiste un diritto del socio a ricevere in ogni caso e solo una somma di denaro: anzi ben potrebbe avvenire che l’interesse dei soci possa essere in certe situazioni integralmente soddisfatto proprio con una attribuzione non monetaria (14).

L’indagine viene, poi, condotta sugli altri due punti cruciali che potrebbero portare a mettere in dubbio la legittimità dell’esecuzione di una riduzione reale del capitale mediante assegnazione di beni in natura.

In primo luogo il principio della parità di trattamento tra i soci, principio questo comune a tutte le società di capitali anche se mai oggetto di una espressa previsione normativa (15): la riduzione deve incidere in misura uguale su tutte le partecipazioni sociali e le modalità di riduzione devono essere tali che tutti i soci siano trattati nello stesso modo.

Ed invero una delibera di riduzione del capitale ben potrebbe determinare una disparità di trattamento, imposta dalla maggioranza dei soci alla minoranza dissenziente, la quale si troverebbe costretta ad accettare beni qualitativamente diversi da quelli assegnati ad altri soci e privi di uno stesso proporzionale valore.

Alcuni Autori, al fine di superare tale obiezione (per la quale la restituzione di beni in natura sarebbe potenzialmente idonea a violare il principio di parità di trattamento tra i soci), suggeriscono di assegnare lo stesso o gli stessi beni a tutti i soci, eventualmente anche in comproprietà tra gli stessi; ovvero obbligazioni od azioni possedute dalla società. In caso di assegnazione di crediti la parità di trattamento potrà essere assicurata attualizzando il valore dei crediti e facendo assumere alla società la garanzia dell’adempimento da parte del debitore ceduto (16).

Altri, attraverso un ragionamento più articolato e convincente, pur concordando con la necessità di adottare il massimo degli accorgimenti al fine di assicurare il rispetto di tale criterio, vanno oltre, ritenendo che la parità di trattamento non può essere intesa in senso assoluto. “Essa infatti opera solo laddove venga imposta dalla maggioranza alla minoranza dissenziente; ed invero se la disuguaglianza è prevista ed accettata da tutti i soci nulla questio, trattandosi normalmente di diritti disponibili dei soci stessi e salva l’applicazione delle norme imperative dettate a tutela di principi fonda-mentali dell’ordinamento (quali ad esempio il divieto del patto leonino o l’abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della L. 18 giugno 1988, n. 192)” (17).

Il secondo problema su cui viene poi condotta l’analisi è quello sotto il profilo della tutela dell’integrità del capitale sociale. Poiché, infatti, differentemente dal denaro i beni in natura non hanno un valore predeterminato oggettivamente, una operazione siffatta – si dice – potrebbe sfociare in una attribuzione ai soci di valori reali che eccedano quelli dell’importo della riduzione del capitale.

Ma anche tale obiezione è stata ritenuta agevolmente superabile. E’ infatti nei poteri dell’assemblea decidere se l’assegnazione dei beni in natura debba avvenire a valore di bilancio o a valore di mercato (nel caso sia maggiore) od anche ad un valore intermedio.

Se i beni venissero assegnati al valore iscritto in bilancio, il patrimonio sociale diminuirà esattamente di un importo pari alla riduzione del capitale; qualora invece l’assegnazione avvenisse ad un valore superiore al valore iscritto, la riduzione dell’attivo sarà inferiore alla riduzione del capitale, determinando così un eccedenza da iscrivere in bilancio come riserva disponibile (18).

Qualunque criterio venga adottato, appare evidente che l’esecuzione della riduzione del capitale mediante assegnazione di beni in natura ai soci non lede in nessun modo l’integrità del capitale sociale. Piuttosto, come è stato esattamente fatto rilevare (19), l’assegnazione può portare ad una lesione non tanto dell’integrità del capitale quanto dell’integrità del patrimonio sociale. “La società infatti sarebbe privata delle plusvalenze latenti inerenti al bene oggetto di assegnazione e non rilevate in bilancio, per effetto dell’applicazione del principio del costo storico. Si tratta di plusvalenze che la società avrebbe potuto realizzare se avesse venduto il bene in questione a valori correnti” (20).

Ciò, evidentemente, con possibile pregiudizio per i creditori della società, che vedrebbero in tal modo diminuita la garanzia patrimoniale della società loro debitrice.

Peraltro è noto come l’ordinamento di regola qualora la lesione del patrimonio non si traduca in lesione dell’integrità del capitale non prevede l’invalidità della delibera o degli eventuali altri atti sociali che determinino tale lesione, ma contempla altri rimedi.

Per cui se i creditori ritengono che il patrimonio sociale è stato depauperato in modo tale da mettere in pericolo i loro crediti, possono fare opposizione ai sensi dell’art. 2445, comma 3, in caso di s.p.a. e ai sensi dell’art. 2482, comma 2, in caso di s.r.l.. Sarà possibile, altresì, esperire l’azione di risarcimento danni: nei confronti dell’organo amministrativo della società che abbia eseguito la delibera di riduzione; nei confronti di quella società o ente che, ricorrendone i presupposti, esercitando attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497, violino i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale arrecando pregiudizio ai creditori sociali per la lesione causata all’integrità del patrimonio della società; nelle s.r.l., ai sensi dell’art. 2476, comma 7, nei confronti di quei soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per i terzi (21).

4) Le soluzioni proposte
Alla luce di quanto esposto, si ritiene di poter aderire in via generale alla tesi favorevole facendo tuttavia alcune considerazioni. 
Invero è sicuramente sostenibile che per il socio vi sia una naturale aspettativa a vedersi assegnato del denaro in caso di riduzione reale del capitale; si direbbe che è quasi un principio sistematico, giacché tutta la situazione di dare-avere in ambito societario si realizza attraverso un bene fungibile qual è il denaro.

Ma questo non pare possa essere sufficiente a ritenerlo come metodo esclusivo e ad escludere, pertanto, del tutto che l’attribuzione possa avvenire in natura.

E’ infatti sicuramente sostenibile che siamo in un ambito in cui si tratta di materia disponibile poiché la decisione di ricevere un bene in natura anziché denaro è una scelta che rientra negli interessi meramente privati dei soci, dei quali essi possono pertanto liberamente disporre. Senza contare poi – come è stato precisato – che in effetti in taluni casi l’interesse dei soci stessi potrebbe trovare compiutamente soddisfazione proprio con una attribuzione non monetaria.

Di qui la convinzione che è ammissibile prevedere, nello statuto di una società di capitali, una clausola che consenta la riduzione del capitale sociale mediante l’attribuzione di beni in natura: essa avrà la funzione di autorizzare una modalità di rimborso che non è prevista dalla legge e che il socio (assente o di minoranza) non è tenuto ad aspettarsi. Con il suo inserimento si avrà nello statuto una regola organizzativa che impedisce al socio di eccepire il diritto ad essere liquidato solo in denaro.

La stessa si ritiene possa essere introdotta sicuramente nella fase costitutiva della società, ove vige la facoltà per le parti di determinare liberamente il contenuto dell’atto negoziale.

Durante la vita della società, il problema di fondo è vedere se debba essere inserita con delibera assunta a maggioranza o necessiti l’unanimità dei consensi.

E’ noto come uno dei temi più intricati del diritto delle società di capitali è stato quello di stabilire se nell’ambito del rapporto sociale sussistessero delle posizioni soggettive dei soci che non potessero essere pregiudicate dalla società con l’adozione di decisioni prese a maggioranza, che è il principio connaturato all’organo assembleare. Da un lato la dottrina tradizionale ha sempre ritenuto sussistente nel sistema un principio generale in virtù del quale le posizioni soggettive attive sono intangibili dalla volontà della maggioranza (22); dall’altro la dottrina più recente ha, invece, negato l’esistenza di tale principio perché, al contrario, nel diritto societario la regola generale è quella secondo cui il funzionamento della struttura sociale è dominato dal metodo maggioritario in forza del quale non sussistono posizioni del socio che non possano essere modificate dalla maggioranza (23).

Nel nuovo sistema, così come delineato dalla riforma, secondo la dottrina la regola dell’unanimità ormai deve ritenersi assolutamente eccezionale, per la presenza di una serie di norme che vanno in direzione opposta: si pensi all’art. 2479 secondo comma n. 5 c.c., il quale per la prima volta si occupa in modo organico del problema dei c.d. diritti individuali dei soci ponendo come regola generale quella della modificabilità a maggioranza delle posizioni soggettive del singolo socio; ed anche agli artt. 2473 primo comma e 2487 ter c.c., con i quali la legge oggi ammette la possibilità di deliberare a maggioranza anche la revoca della liquidazione ove viene sottratto al socio di minoranza il diritto alla quota di liquidazione (24).

Stante questa rilevante novità introdotta dalla riforma e considerato che la clausola in esame in realtà ha un rilievo eminentemente organizzativo – con essa, infatti, si sta solo inserendo una regola finalizzata ad incidere sull’organizzazione futura della società – si ritiene possa sostenersi che manente societate la clausola di riduzione del capitale mediante assegnazione di beni in natura possa essere inserita nello statuto a maggioranza.

La presenza della clausola, peraltro, non risolve il problema dell’applicabilità del principio di parità di trattamento tra i soci che, come si è visto, è un principio costantemente richiamato e pacificamente riconosciuto come esistente nel sistema. La clausola statutaria non può valere come preventivo consenso alla disparità di trattamento.

La clausola gioca la funzione di non dover più deliberare in ordine all’ammissibilità della tecnica di liquidazione, costringe i soci ad accettare l’assegnazione di beni anziché di denaro (o con la liberazione dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti) ma non esclude nelle singole situazioni la lesione della parità di trattamento.

Sicché la riduzione, deliberata a maggioranza, dovrà essere attuata, nel rispetto dei principi fondamentali di correttezza e buona fede, garantendo la sostanziale parità di trattamento dei soci. Ciò potrà realizzarsi attraverso la creazione di panieri omogenei da assegnare ai soci: ad es. merci omogenee presenti in magazzino, identiche villette a schiera di un complesso immobiliare; azioni della società; assegnazione in comproprietà dell’unico bene – o di tutti i beni in natura – in proporzione alle quote di capitale detenute, ecc.. Qualora la parità non sia attuabile, l’operazione potrà ugualmente realizzarsi, ma in tal caso esclusivamente attraverso una delibera assunta con il consenso di tutti i soci (25).

Resta da esaminare l’ipotesi in cui si voglia procedere ad una assegnazione siffatta in mancanza di una specifica clausola nello statuto che la preveda.

In tal caso possono prospettarsi due possibilità:

– per poter disapplicare una tantum quel principio desumibile dal sistema di cui si è già detto,

ossia la naturale aspettativa del socio a vedersi liquidato il rimborso in denaro, si ritiene che la delibera debba essere assunta all’unanimità. In fondo si sta realizzando una datio in solutum senza una regola organizzativa che la impone; e analogamente a quanto accadrebbe se, deliberando un rimborso in denaro, si proponesse poi ai soci una datio in solutum, non si può prescindere dal consenso dei diretti interessati;

– ove si possa deliberare solo a maggioranza l’operazione, sarà invece necessario assumere contestualmente una duplice delibera: la prima di modifica dello statuto con inserimento della clausola che legittimi l’assegnazione di beni in natura; la seconda, sospensivamente condizionata all’iscrizione nel registro delle imprese della prima, che proceda all’assegnazione stessa.

Dalle considerazioni su esposte non v’è chi non veda che dalla riduzione del capitale mediante assegnazione di beni in natura non si ha lesione di alcun interesse protetto: i soci non subiscono danno in quanto i beni loro assegnati (nel rispetto del principio della parità di trattamento) sono omogenei tra loro ovvero diversamente hanno prestato il loro consenso all’operazione; l’integrità del capitale sociale è rispettata; i creditori sociali hanno diritto di fare opposizione o esperire una serie di azioni giudiziarie qualora vedano un pericolo di pregiudizio nella riduzione del patrimonio della società.

Due ultime osservazioni, per completezza di indagine, si ritiene di dover fare:
- è da ritenere ammissibile una riduzione/assegnazione ”mista”: la riduzione può avvenire parte

mediante denaro o liberazione da conferimenti e parte mediante assegnazione di beni in natura;
- per quanto attiene i soci che in sede di sottoscrizione di capitale abbiano conferito dei beni in natura, secondo la dottrina prevalente26 il socio non può pretendere di ottenere in restituzione il medesimo immobile che abbia eventualmente conferito: principio questo pacificamente accettato e riconosciuto in dottrina in sede di riparto nella liquidazione, senza contare, poi, che lo stesso bene potrebbe non essere più presente nel patrimonio della società perché oggetto di trasferimento a terzi. Il rimborso si realizza dal punto di vista quantitativo e non qualitativo, avendo ad oggetto la stessa quantità di quanto conferito a suo tempo senza alcun ripristino della situazione iniziale.

 

(1) Tribunale Rovereto, 5 giugno 1970, in Rivista del Notariato, 1970, pag. 797, con nota critica di A. GIULIANI secondo cui “la asserita nullità della clausola statutaria di specie deriva dall’erroneo convincimento che la società, con quel mezzo, possa essere legittimata anche alla arbitraria determinazione del valore dei beni attribuiti ai soci. Il che non risulta – né lo potrebbe – né dalla clausola incriminata né dalle strutture di legge che regolano la datio in solutum: poiché proprio questo è l’istituto giuridico nel quale deve inquadrarsi la clausola de qua”.

(2) Tribunale Napoli, 21 aprile 1983, in Le società, 1983, pag. 1284.

(3) Tribunale di Roma, in Rassegna di giurisprudenza onoraria del Tribunale di Roma, in Le società, 1996, 1466 ss.

(4) S. CHIMENTI, “Commento sub art. 2445”, in Codice commentato delle s.p.a., diretto da G. Fauceglia e G. Schiano di Pepe, Tomo secondo, Torino, 2007; A. FERRUCCI – C. FERRENTINO, “Le società di capitale, le società cooperative e le mutue assicuratrici, – Manuale e applicazioni pratiche dalle lezioni di Guido Capozzi – Tomo II, Milano 2005, pag. 1125 ss.; M. CERA, “Il passaggio a riserve a capitale”, Milano, 1988, pag. 57 ss.; F. FENGHI, “La riduzione del capitale. Premesse per una ricerca sul capitale nelle società per azioni, Milano, 1974, pag. 83.

(5) In tal senso A. FERRUCCI – C. FERRENTINO, op. cit.; S. CHIMENTI, op. cit.

(6) P. PALONI, “Riduzione per esuberanza di capitale sociale con assegnazione di beni in natura ai soci” in Vita notarile, supplemento al n. 2, Palermo, 1994.

(7) L. SALVATORE, “Le assegnazione di Beni ai soci nelle società lucrative”, in Contr. e impresa, 1999, pag. 843; F. PLATANIA, “Le modifiche del capitale”, Milano 1998, pag. 269; P. PALONI, op. cit.

(8) A. FERRUCCI – C. FERRENTINO, op. cit.

(9) Così C. A. BUSI, “Questioni in tema di riduzione del capitale per perdite e per esuberanza”, in Vita Notarile n. 3, Palermo, 2001, che segnala in nota S. LANDOLFI, “Problemi attuali dell’omologazione degli atti societari” in Vita notarile, n. 1/3, Palermo, 1988, e secondo il quale “non sembra chiarire la situazione il richiamo alla datio in solutum per giustificare l’assegnazione di un bene in luogo del denaro. Anzi la previsione di adempimento di un’ obbligazione originaria mediante datio in solutum sembra portare la questione fuori dalla competenza assembleare trattandosi non più di una operazione deliberata, ma di modalità di esecuzione della stessa, come tale forse di competenza dell’organo amministrativo (v. art. 2623, n. 2). Non aiuta nemmeno parlare di consenso di tutti i soci perché l’unanimità nuovamente ci porta lontano dalla logica dei poteri dell’assemblea e del principio maggioritario che la contraddistingue”.

(10) F. FENGHI, op. cit.

(11) F. GUERRERA, “Commento all’art. 2445”, in Società di capitali, Comm. a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, p. 1199; R. NOBILI, “La riduzione del capitale”, in Il nuovo diritto delle società”, diretto da P. Abbadessa e G. Portale, Torino, 2007; F. MAGLIULO, “La riduzione reale del capitale con particolare riferimento alle Srl”, in Le operazioni sul capitale sociale: casi pratici e tecniche di redazione del verbale notarile”, Atti del convegno di Milano in data 29.3.2008, in Quaderni della Fondazione italiana per il notariato, Il sole 24 ore, supplemento al n. 3/2008; R. NOBILI – M. S. SPOLIDORO, “La riduzione di capitale”, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G. Portale, Torino, 1993; F. FERRARA jr – F. CORSI, “Gli imprenditori e le società”, Milano, 2001; D. CORRADO, “Commento all’art. 2482”, in Società a responsabilità limitata, Commentario alla riforma delle società a cura di P. Marchetti, L. A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano 2008; B. QUATRARO – R. ISRAEL – S. D’AMORA – G. QUATRARO, Trattato teorico-pratico delle operazioni sul capitale, Tomo I, Milano 2001; U. BELVISO, “Le modificazioni dell’atto costitutivo nelle società per azioni” in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Torino, 1985; G. SANTINI, “ Società a responsabilità limitata”, in Commentario al codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Roma, 1971; L. PULCINI, in Rivista del notariato, 1969, pag. 904.

(12) Tribunale Udine, 28 novembre 1988, in Gazzetta notarile, 1991, pag. 370 ed anche in Giurisprudenza italiana., 1991, pag. 847, entrambe con nota dubbiosa di A. STAGNI, “Riduzione del capitale per esuberanza con assegnazione ai soci di beni in natura”.

(13) R. NOBILI, op. cit.

(14) R. NOBILI – M.S. SPOLIDORO, op. cit.

(15) Interessanti a tal proposito sono le osservazioni di F. TASSINARI, “I patti parasociali e le obbligazioni del socio a titolo diverso dal conferimento” in La riforma della società a responsabilità limitata di C. CACCAVALE, F. MAGLIULO, M. MALTONI, F. TASSINARI, Milano, 2003.

(16) Così R. NOBILI – M.S. SPOLIDORO, op. cit.

(17) Così F. MAGLIULO, op. cit.

(18) In tal senso R. NOBILI – M.S. SPOLIDORO, op. cit., che in nota 22 così meglio specificano:”Si consideri ad esempio una società il cui capitale sociale è di 800 milioni, avente passività reali per un miliardo e beni iscritti all’attivo per un miliardo e 800 milioni; se il capitale viene ridotto da 800 a 600 milioni ed ai soci vengono restituiti beni iscritti in bilancio per 200 milioni la situazione patrimoniale della società resta perfettamente bilanciata: il capitale di 600 milioni e le passività reali di un miliardo saranno sempre coperti da un attivo il cui valore contabile sarà un miliardo e 600 milioni. …. Se i beni distribuiti ai soci avessero, per esempio, un valore di mercato doppio rispetto al loro valore di bilancio e fossero assegnati ai soci per il loro valore di mercato, nell’esempio che precede i soci sarebbero soddisfatti con la distribuzione (per complessivi 200 milioni) di beni iscritti in bilancio per 100 milioni. L’operazione produrrebbe come effetto che, di fronte ad un attivo di un miliardo e 700 milioni (a valore di libro), vi sarebbe un capitale di 600 milioni ed un passivo reale di un miliardo. La differenza (cento milioni) darebbe luogo ad una plusvalenza, tassata, e dovrebbe essere accantonata a riserva.”

(19) F. MAGLIULO, op. cit.

(20) F. MAGLIULO, op. cit.

(21) In tal senso F. MAGLIULO, op. cit.; R. NOBILI – M.S. SPOLIDORO, op. cit., anche se in senso parzialmente diverso laddove prevedono che il risarcimento può essere chiesto solo quando vengono assegnati beni essenziali per il profittevole svolgimento dell’attività sociale.

(22) U. BELVISO, op. cit.; F. FERRARA jr – F. CORSI, op. cit.

(23) G. TANTINI, “Le modificazioni dell’atto costitutivo nelle società per azioni”, Padova, 1973; F. MAGLIULO, “La riduzione reale del capitale” in La riforma della società a responsabilità limitata di C. CACCAVALE, F. MAGLIULO, M. MALTONI, F. TASSINARI, op. cit.

(24) Così F. MAGLIULO, “Le decisioni dei soci” in La riforma della società a responsabilità limitata di C. CACCAVALE, F. MAGLIULO, M. MALTONI, F. TASSINARI, cit.

(25) In tal senso anche Massime elaborate dalla commissione società del Consiglio notarile di Milano (massima n. 35) secondo cui “la riduzione effettiva deve essere attuata nel rispetto sostanziale del criterio di parità di trattamento dei soci. A ciò la delibera deve rigorosamente attenersi: modalità diverse (ad esempio quella che prevedesse di ricorrere al sorteggio delle partecipazioni da rimborsare) non paiono adottabili a maggioranza. Per essere giustificate sul piano causale, richiederebbe il consenso di tutti i soci”.

(26) F. MAGLIULO, op. cit.; R. NOBILI – M.S. SPOLIDORO, op. cit.; B. QUATRARO – R. ISRAEL – S. D’AMORA – G. QUATRARO, op. cit.

 

LIQUIDAZIONE DELLE AZIONI E DIRITTO DI OPZIONE IN CASO DI RECESSO DEL SOCIO DI SOCIETA’ CONSORTIEL EPR AZIONE.

In una società consortile per azioni è legittima una disposizione statutaria volta a prevedere che, in caso di recesso del socio, al recedente venga liquidata una somma pari alla frazione di capitale sociale nominale rappresentata dalle azioni per le quali tale diritto viene esercitato. E’ altresì legittima una previsione dello statuto in base alla quale viene escluso il diritto di opzione dei soci sulle azioni del recedente.

1. La fattispecie.

Alla luce delle peculiarità delle società consortili è opportuno riflettere sulla legittimità di due ipotetiche disposizioni statutarie di una società consortile per azioni riguardanti la disciplina del recesso del socio.

In particolare, è da chiedersi se sia legittimo prevedere statutariamente che:

i) al socio recedente spetti unicamente la corresponsione di una cifra pari alla frazione del capitale sociale nominale rappresentata dalle azioni per le quali tale diritto viene esercitato;

ii) non sia attribuito al socio – in deroga al disposto di cui all’art. 2437- quater, primo comma, c.c. – il diritto di opzione sulle azioni del recedente.

2. La soluzione motivata. I criteri di ricostruzione della disciplina applicabile alle società consortili.

Per rispondere ai quesiti riportati risulta necessario, in via preliminare, individuare la disciplina applicabile alle società consortili.

Le uniche disposizioni espressamente previste dal codice civile per questo particolare tipo di società sono quelle di cui all’art. 2615-ter, che tuttavia si limita a prevedere che “le società previste nei capi III e seguenti del titolo V possono assumere come oggetto sociale gli scopi indicati dall’articolo 2602. In tal caso l’atto costitutivo può stabilire l’obbligo dei soci di versare contributi in denaro”. In altri termini, la suddetta disposizione nulla specifica in relazione alla disciplina applicabile, in via generale, a queste società.

A tal proposito parte della dottrina ha sostenuto – in passato – l’applicabilità della normativa dettata dal codice civile in materia di consorzi. Attualmente, invece, l’opinione maggioritaria e senza dubbio da preferire è orientata nel ritenere che debba applicarsi la disciplina societaria e, quindi, in particolare, quella del tipo societario adottato (1).

Tanto premesso, deve tuttavia aggiungersi che le società consortili sono caratterizzate da una causa “diversa” rispetto a quella tipicamente societaria (lucrativa). In particolare, il c.d. “scopo-fine” del contratto di società (così come risultante direttamente dalla definizione fornita dall’art. 2247 c.c.) è rappresentato dalla divisione degli utili in capo ai soci, con la conseguenza che lo scopo di lucro c.d. soggettivo rappresenta certamente un elemento costitutivo essenziale della fattispecie “società lucrativa”. Diversamente, invece, nella società consortile: lo scopo di questa (come risulta dall’art. 2602 c.c., espressamente richiamato dall’art. 2615-ter c.c.) consiste nell’erogazione di servizi o nella produzione di beni tendenzialmente destinati agli imprenditori soci, e non a terzi. Tale società, quindi, risulta priva dello scopo di lucro; e ciò perché tramite questa si mira alla realizzazione di vantaggi patrimoniali non “immediati”, bensì “mediati” e consistenti in una diminuzione dei costi o in un aumento dei ricavi e non nella produzione di utili da dividere (2).

E’ possibile, quindi, affermare che “la gestione mutualistica, e quindi anche la gestione consortile, riassume oggetto e scopo della società” (3).

In particolare, tale condizione sussiste in quelle società consortili il cui statuto, per godere delle agevolazioni previste dalla legge 21 maggio 1981 n. 240, prevede espressamente il divieto assoluto di operare distribuzioni di utili o riserve sotto qualsiasi forma.

Sulla base di queste sintetiche considerazioni è allora possibile affermare che la causa consortile impone adattamenti della disciplina societaria, la quale è stata pensata dal legislatore sul presupposto della sussistenza di una finalità lucrativa dell’ente. Più in particolare, devono ritenersi legittime eventuali deroghe statutarie alla normativa in materia di società se idonee a conformare la stessa alle peculiarità delle società consortili; e ciò anche nel caso in cui queste riguardino norme generalmente ritenute imperative con riferimento alle società lucrative. In sostanza, “la causa consortile può far regredire talune norme societarie, inderogabili quando viene perseguito lo scopo di lucro, al rango di norme dispositive” (4).

Deve evidenziarsi, d’altra parte, come l’unica disposizione espressamente prevista per le società consortili (art. 2615-ter, secondo comma, c.c.) contiene una deroga all’ordinaria disciplina dei conferimenti dettata per le società c.d. lucrative, ove è principio pacifico che l’atto costitutivo non può imporre ai soci versamenti/contributi ulteriori rispetto ai “conferimenti”, emergendo allora come il legislatore sia consapevole della singolarità delle esigenze di questi enti e della necessità di una disciplina peculiare. In altri termini, la previsione di cui all’art. 2615-ter, secondo comma, c.c. può essere considerata espressione di un generale principio, secondo il quale è legittima la previsione di deroghe statutarie della disciplina societaria, purché compatibili e funzionali alla causa consortile. Unico limite all’autonomia statutaria deve ritenersi l’impossibilità di incidere sui principi fondamentali che regolano il tipo di società prescelto in modo tale da stravolgerlo e renderlo non più riconoscibile “sotto il profilo organizzativo” (5).

3. Segue: legittimità di una clausola statutaria volta a prevedere che, in caso di recesso del socio, al recedente venga liquidata una somma pari alla frazione di capitale sociale nominale rappresentata dalle azioni per le quali tale diritto viene esercitato.

Alla luce delle considerazioni svolte, deve evidenziarsi quanto segue. Se la differenza sussistente fra la causa delle società c.d. lucrative (ex art. 2247 c.c.) e quella delle società consortili è data dal fatto che mentre nelle prime si mira all’ottenimento di vantaggi patrimoniali “immediati”, nelle seconde l’obiettivo è il raggiungimento di vantaggi patrimoniali “mediati”, allora completamente diversa risulta essere la funzione dei conferimenti effettuati dai soci e, in generale, di tutte le risorse versate al fine di finanziare la società, a seconda che vi sia o meno la causa consortile.

In particolare, nelle società lucrative tali risorse rappresentano “investimenti” (cioè mezzi impiegati al fine di produrre nuova ricchezza); conseguentemente, al momento del recesso il socio ha diritto ad ottenere la liquidazione di un quantum che tenga conto, in adempimento al disposto di cui all’ art. 2437-ter secondo comma c.c., “della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni” (e cioè della ricchezza prodotta anche grazie al “proprio” investimento).

Diversa è, invece, la funzione che il conferimento di risorse ha nelle società consortili (e, in particolare, in quelle nelle quali lo statuto vieta espressamente qualsiasi divisione di utili in favore dei soci): in queste i conferimenti effettuati dagli azionisti hanno il fine non di produrre ricchezza da dividere, ma di garantire l’erogazione di servizi o la produzione di beni predeterminati. Da quanto detto emerge come tali versamenti non possano essere considerati “investimenti”, bensì contributi versati in modo tale da garantire i vantaggi patrimoniali “mediati”, come prestabilito.

Tanto premesso, appare legittima l’introduzione in una società consortile di una disposizione statutaria che preveda, in caso di recesso di un socio, la liquidazione di un quantum uguale alla frazione di capitale sociale nominale corrispondente alle azioni per le quali il suddetto diritto è stato esercitato (6).

Una previsione di questo tipo sarebbe senza dubbio illegittima se prevista dallo statuto di una società lucrativa (in quanto frustrerebbe l’intento lucrativo al quale è preordinato il conferimento), mentre risulta assolutamente compatibile con la natura di un ente caratterizzato dall’ assenza di una qualsiasi finalità lucrativa.

4. Segue: derogabilità della disciplina di cui all’art. 2437-quater, primo comma, c.c.

Venendo ad esaminare il problema della derogabilità della disciplina di cui all’art. 2437-quater, primo comma, c.c., deve premettersi che l’art. 2437- ter, c.c., disciplina il procedimento di liquidazione da seguire in caso di recesso del socio di S.p.A. prevedendo, in primo luogo, che“gli amministratori offrono in opzione le azioni del socio recedente agli altri soci in proporzione al numero delle azioni possedute”. E’ poi previsto che qualora i soci non le acquistino, le azioni possono essere collocate presso terzi e, nel caso in cui questo collocamento non abbia successo, queste vengono rimborsate tramite acquisto da parte delle società. In assenza di utili o riserve disponibili l’assemblea straordinaria delibera la riduzione del capitale sociale o lo scioglimento della società.

Nelle società lucrative tale procedimento deve ritenersi inderogabile in tutte le sue fasi (7).

Se in generale la ratio sottesa al suddetto procedimento è quella di permettere, in caso di recesso del socio, l’uscita di questi senza depauperare eccessivamente il patrimonio sociale e, quindi, garantire la continuità dell’impresa e la tutela dei creditori sociali (8), diversa è la finalità sottesa alla previsione dell’obbligo di offrire le azioni in opzione ai soci; più in particolare, tale finalità consiste nel tutelare l’interesse del socio ad essere preferito ai terzi esterni alla società in riferimento all’acquisto delle azioni, con la conseguente possibilità di accrescere proporzionalmente la propria partecipazione agli utili (diritti patrimoniali), così come l’incidenza dei propri poteri inerenti all’amministrazione della società (diritti amministrativi).

Ebbene, deve concludersi che in una società consortile – e, in particolare, in una società che gode delle agevolazioni della citata legge n. 240/1981 – il socio potrebbe non avere alcun interesse all’aumento della propria quota di utili o dei diritti amministrativi, con la conseguenza che non sussiste alcuna ragione per ritenere necessaria l’offerta delle azioni in opzione ai soci.

Sulla base di quanto premesso è possibile, perciò, ritenere legittima la previsione di una clausola statutaria che, in deroga al disposto di cui all’art 2437-quater primo comma, c.c., preveda che in caso di recesso del socio gli amministratori collochino direttamente le azioni presso terzi, senza prima offrire le stesse in opzione ai soci.

 

(1) In questi termini, fra gli altri, G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 1, Torino 2006, pag. 274 e ss.; F. CASALE, Le società consortili tra diritto comune, diritto speciale e salutari ripensamenti della Cassazione, in La nuova giurisprudenza commentata, 2005, II, 1, pag. 363; M. SARALE, La posizione della Cassazione sulla disciplina delle società consortili: i limiti della rilevanza causale sulla forma societaria, in Giur. Comm. 2005, II, pag. 396 e ss.; ID., Consorzi e società consortili, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, vol. 3, pag. 541 e ss.; E. BRESSAN, Le modalità di rimborso del socio receduto da società consortile, in Giur. Comm. 1999, II, pag. 33 e ss.; G.V. CALIFANO, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi e le società consortili, Milano 1999, pag. 173 e ss.; G. VOLPE PUTZOLU, Le società consortili, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 1998, pag. 281; A. PROPERSI e G. ROSSI, I consorzi, Milano 1992, pag. 59; G. MARASA’, Consorzi e società consortili, Torino 1990, p. 121 e ss.; G.D. MOSCO, I consorzi fra imprenditori, Milano 1988, pag. 300 e ss.; A. BORGIOLI, Consorzi e società consortili, Milano 1985, pag. 156 e ss.; M.S. SPOLIDORO, Le società consortili, Milano 1984, pag. 147. In giurisprudenza cfr. Cass. Civ., sez. I, 27 novembre 2003, n. 18113.

(2) n tal senso v., ex multis, G.F. CAMPOBASSO, op. cit., pag. 271 e ss.; A. PROPERSI e G. ROSSI, op. cit., pag. 59; G.D. MOSCO, op. cit., pag. 260 e ss.; G. MARASA’, op. cit., pag. 96 e ss.

(3) Così G. VOLPE PUTZOLU, op. cit., pag. 271.

(4) Così esattamente G. MARASA’, op. cit., pag. 122; in tal senso, fra gli altri, F. CASALE, op. cit., pag. 364; M. SARALE, La posizione della Cassazione, cit., pag. 399; G. VOLPE PUTZOLU, op. cit., pag. 281; A. BORGIOLI, op. cit., pag. 162; M. S. SPOLIDORO, op. cit., pag. 152.

(5) In tal senso v. Cass. Civ., sez. I, 27 novembre 2003, n. 18113.

(6) In questi termini anche M. SARALE, op. cit., pag. 555 e 556.

(7) In tal senso, ex multis, P. PISCITELLO, Recesso del socio, in Riv. dir. soc. 2008, I, pag. 47; V. DI CATALDO, Il recesso del socio di società per azioni, in Il nuovo diritto delle società, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 3, Torino 2007, pag. 250; F. CHIAPPETTA, Nuova disciplina del recesso di società di capitali: profili interpretativi e applicativi, in Riv. Soc. 2005, pag. 513; D. GALLETTI, sub 2437-quater, in Il nuovo diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, Padova 2005, pag. 1602; M. CALLIGARI, sub 2437-quater, in Il nuovo diritto societario, commentario diretto da G. Cottino e altri, Bologna 2004, pag. 1431; S. CARMIGNANI, sub 2437-quater, in La riforma delle società, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, Torino 2003, pag. 895.

(8) In tal senso, ex multis, G.F. CAMPOBASSO, op. cit., II, pag. 499; V. DI CATALDO, op. cit., pag. 248; P. PISCITELLO, op. cit., pag. 46; F. CHIAPPETTA, op. cit., pag. 512.

 

AMMINISTRATORE PERSONA GIURIDICA

La nomina di una società alla carica di amministratore di una società di capitali deve ritenersi generalmente ammissibile anche in mancanza di una specifica previsione statutaria.

1) La fattispecie ed il quesito.

La mancanza di espliciti dati normativi ha da tempo favorito una disputa sull’ammissibilità di un amministratore persona giuridica, facendo in passato prevalere la tesi negativa (1).
Tale posizione, che primariamente accredita un latente sfavore del legislatore, si basa principalmente sulle seguenti argomentazioni:

a) le norme di legge in materia di amministrazione sarebbero chiaramente orientate verso una persona fisica (valutazione delle qualità etiche e morali) con prevalente “intuitus personae”;
b) la eventuale nomina di una persona giuridica quale amministratore, rimetterebbe a quest’ultima la facoltà di individuare la persona fisica (suo rappresentante designato all’ amministrazione) che materialmente svolgerà la funzione, con ciò privando l’assemblea della società da amministrare del suo inalienabile diritto a nominare il proprio organo amministrativo.

2) Le motivazioni dell’orientamento.

Le precedenti tesi appaiono oggi confutabili (2), sia considerando alcuni dati normativi, sia argomentando diversamente quanto innanzi esposto:

A) Dati normativi.

L’art.2361 del c.c., comma secondo, prevede che:

“L’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio”.

L’art.111 duodecies disp. att. c.c. stabilisce che:
”Qualora tutti i loro soci illimitatamente responsabili, di cui all’art. 2361, comma secondo, del codice, siano società per azioni, in accomandita per azioni o società a responsabilità limitata, la società in nome collettivo o in accomandita semplice devono redigere il bilancio secondo le norme previste per le società per azioni; esse devono inoltre redigere e pubblicare il bilancio consolidato come disciplinato dall’articolo 26 del decreto legislativo 9 aprile 1991, n.127, ed in presenza dei presupposti ivi previsti”.

Dal combinato disposto di queste due norme è desumibile la possibilità che una società di capitali assuma la qualifica di socio di una società a responsabilità illimitata, che comporti l’attribuzione di poteri di amministrazione. Si pensi all’ipotesi di società di capitali che sia unico socio accomandatario di una s.a.s e che, per legge, è chiamata ad esercitare poteri di amministrazione. Laddove l’ordinamento vietasse la nomina ad amministratore di una persona giuridica, ciò non sarebbe possibile.

L’art.147 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n.267) prevede: “La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente a uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”.

Il profilo cruciale di tale disposizione risiede nel riferimento al capo VI del titolo V (quindi al tipo societario S.a. p a.) in tal modo presupponendo la nomina di una persona giuridica ad accomandatario ( per sua natura amministratore ) di una società di capitali.

Anche se non costituisce argomento decisivo, appare in ogni caso utile un richiamo all’art.2475 del c.c., che al comma primo prevede:
”salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, l’amministrazione della società è affidata a uno o più soci, nominati con decisione dei soci presa ai sensi dell’articolo 2479″.

L’esame della norma potrebbe condurre a due considerazioni:
- in primo luogo, nulla vieterebbe che ad assumere la carica di amministratore sia una persona giuridica “socio” della società da amministrare;
- in secondo luogo, nell’ipotesi in cui tutti i soci siano persone giuridiche ed in mancanza di diversa previsione statutaria, l’affidamento dell’amministrazione ad una persona giuridica potrebbe essere sostanzialmente considerata “una soluzione inevitabile”.

La crescente tendenza a ritenere ammissibile la fattispecie in esame è anche supportata dal quadro normativo prevalente a livello comunitario.
 A parte l’esplicita ammissibilità sancita in altri ordinamenti (come in Francia) (3) ed i chiari sintomi che emergono in norme speciali previste nel nostro ordinamento (4), vengono in decisiva considerazione le nuove normative in materia, da un lato di GEIE e, dall’altro, di Società Europea.

In particolare:

­– L’art. 5, d.lgs. 23 luglio 2001, n. 240, in materia appunto di GEIE, espressamente stabilisce, infatti, che “può essere nominato amministratore anche una persona giuridica, la quale esercita le relative funzioni attraverso un rappresentante da essa designato”.
Tale disposizione sembra destinata proprio a superare le “tradizionali obiezioni” alla nomina di una persona giuridica come amministratore, in precedenza illustrate.

– L’art. 47, 1° comma, Regolamento UE 8/10/2001, n. 2157/2001, da parte sua, stabilisce che ” lo statuto della società europea può prevedere che una società o altra entità giuridica sia membro di un organo, salvo se altrimenti disposto dalla legislazione dello stato membro della sede sociale applicabile alle società per azioni “
successivamente precisando che
”la società o altra entità giuridica deve designare un rappresentante, persona fisica, ai fini dell’esercizio dei poteri nell’organo”.

Da ciò appare lecito affermare che, a livello comunitario, la possibilità di nominare amministratore di una società una persona giuridica è ormai considerata la regola, da applicare salvo espressa disposizione contraria nella legislazione nazionale.

B) Argomentazioni:

1) se è indubitabile che le norme in materia di nomina dell’organo amministrativo siano state dal legislatore modellate sul paradigma della persona fisica, non è altrettanto pacifica la derivazione di un principio di inapplicabilità delle stesse ad una persona giuridica.
Peraltro, l’ “intuitus personae” che orienta la scelta dell’organo amministrativo può certamente considerarsi riferibile anche ad una persona “non fisica”.

Individuando la natura giuridica dell’amministratore in un “ufficio di diritto privato”, inteso come complesso di poteri-doveri finalizzato al soddisfacimento di interessi privati da esercitarsi nei modi prescritti dalla legge (5), può rilevarsi che, in riferimento ad analoghe figure, il legislatore prevede espressamente che il “munus” possa essere affidato anche ad una persona giuridica: è il caso dell’art.354 in tema di tutela, nonchè dell’art.408 per l’amministratore di sostegno.

Se in riferimento a tali istituti, con prevalente carattere pubblicistico e conseguente maggiore accentuazione dell’ “intuitus personae”, è quindi prevista per dato normativo la riferibilità ad una persona giuridica, a maggior ragione deve ritenersi ammissibile per l’amministrazione di società.

2) l’affermazione che la nomina ad amministratore di una persona giuridica è parificabile alla nomina rimessa ad un terzo estraneo alla società, per quanto autorevolmente sostenuta in passato, appare oggi superabile (6). 
Se infatti si attribuisce un significato (sia pure normativo, ma) non antropomorfico alla nozione giuridica, si deve osservare che il rapporto fiduciario si instaura fra assemblea dei soci e società-amministratore, ben potendosi configurare un concetto di “intuitus” riferito alla persona giuridica, e che la circostanza per cui la società amministratore opera per il tramite di persone fisiche variabili è un dato di mero fatto, giuridicamente non rilevante, ponderato e liberamente valutato dall’organo collegiale nominante (7).

In questa prospettiva è incontestabile che l’assemblea di una società che ha scelto un’altra società quale proprio amministratore, non solo ha esercitato una sua prerogativa, ma conserva intatto il potere di revoca della persona giuridica nominata alla carica amministrativa.
Anche in questo caso ci soccorre un confronto con la lettera dell’art.354 del c.c., nel quale espressamente si prevede che “l’amministrazione dell’ente delega uno dei propri membri ad esercitare le funzioni di tutela”. Utilizzando, in riferimento a tale disposizione, lo stesso meccanismo interpretativo dei sostenitori della tesi negativa innanzi illustrata, si dovrebbe paradossalmente ritenere che in questo caso la scelta del tutore sia sottratta (oltretutto dallo stesso legislatore) alla competenza inderogabile del Giudice Tutelare.

Analoghe considerazioni possono essere svolte in riferimento all’art.28, comma primo, lettera b, della legge fallimentare, il quale prevede che “Possono essere chiamati a svolgere la funzione di curatore studi professionali associati o società tra professionisti, sempre che i soci delle stesse abbiano i requisiti professionali di cui alla lettera a). In tale caso, all’atto di accettazione dell’incarico, deve essere designata la persona fisica responsabile della procedura”.

In base a questa disposizione è possibile attribuire l’amministrazione del patrimonio fallimentare a un ente (e quindi a persona “non fisica”) con poteri e funzioni del curatore assimilabili a quelli dell’organo di amministrazione di una società, ed anche in questo caso la nomina non può che discendere dal Tribunale la cui competenza è inderogabile.

Proprio dall’inderogabilità delle “fonti” di nomina dei titolari dei due uffici di diritto privato innanzi esaminati, può farsi discendere un principio operativo a sostegno della tesi positiva qui sostenuta.
Inoltre, non sembrano avere forza dirimente i riferimenti normativi utilizzati dai sostenitori della tesi negativa, ovvero:

– l’art. 2388 c.c., in tema di validità delle deliberazioni del consiglio, che al terzo comma prevede che “il voto non può essere dato per rappresentanza”, in quanto la norma è evidentemente riferita all’ipotesi di “rappresentanza volontaria”, con esclusione quindi della rappresentanza “legale” e della rappresentanza derivante da “rapporto organico”

– l’art. 2542 c.c., dettato in materia di società cooperative, che nel secondo comma della formulazione attuale (8), prevede che “ognuno degli amministratori è scelto tra i soci cooperatori ovvero tra le persone indicate dai soci cooperatori persone giuridiche” .
Al contrario tale argomentazione, pur autorevolmente richiamata (9), potrebbe essere utilizzata proprio per accreditare una tesi opposta:

se per principio generale la nomina alla carica di amministratore di una persona giuridica non fosse ammessa, che necessità avrebbe avuto il legislatore di codificarlo esplicitamente in una norma speciale? 
Appare invece più plausibile sostenere che proprio la mancanza di un principio inibitore ha determinato il legislatore a codificarne l’esplicita esclusione nella predetta fattispecie.

Le possibili soluzioni.

Per accreditare in maniera motivata e convincente la tesi positiva occorre precisare che la questione in esame emerge in distinte ipotesi :

– la prima è riferibile al caso che ad assumere la carica di amministratore sia una persona giuridica “socio” della società da amministrare: qui la soluzione positiva appare di più facile definizione, soccorsa da varie argomentazioni che, come in parte già illustrato, sono riferibili non soltanto a rilievi pragmatici, particolarmente pregnanti nella già richiamata ipotesi di s.r.l. la cui compagine sia composta esclusivamente da persone giuridiche (10), ma soprattutto ad inderogabili disposizioni normative (art. 2318 2°c del c.c., che nel caso di s.a.s. con socio accomandatario persona giuridica, “impone” che l’amministrazione spetti alla stessa; ma vedi anche , con riguardo alla s.a.p.a., gli artt. 2452 e 2455).

–  la seconda è riferibile al caso di una società composta anche esclusivamente da persone fisiche, che ritiene opportuno esternalizzare l’amministrazione, affidandola ad una società che svolga professionalmente l’attività di “amministratore di società”: questa ipotesi può essere considerata praticabile solo in presenza di una generale ammissibilità della fattispecie, e quindi a prescindere da una specifica previsione statutaria. Tale ultima circostanza sarebbe soddisfacente in presenza di un quadro normativo che vietasse il tipo di amministrazione in esame “salvo diversa previsione statutaria”, ma nell’attuale o viene individuato un principio di “non ostatività” legislativa che rende praticabile l’ipotesi, o nel caso contrario non potrà essere la volontà dei soci formalizzata nei patti sociali a superare l’ostacolo.

Ciò ovviamente non esclude l’opportunità che una clausola statutaria disciplini , anche in termini operativi, l’affidamento dell’amministrazione ad una società (11).
Appare utile , in conclusione, precisare che le ipotesi innanzi descritte risultano delineate esclusivamente dal punto di vista “attivo” della società che sceglie di essere amministrata da un’altra società.

Diverso il punto di vista “passivo” della società che accetta di svolgere l’attività di amministrazione. Da quest’ultimo angolo prospettico, occorre ulteriormente distinguere e precisare:
- “nulla questio” per l’ipotesi di una società che abbia come oggetto sociale l’attività di amministrazione di altre società;

– più problematica la diversa ipotesi, nella quale va attentamente valutata l’eventuale “rilevante modificazione dei diritti dei soci” che deriverebbe dall’assunzione delle responsabilità inerenti l’attività di amministrazione; qui gli aspetti operativi vanno armonizzati con la normativa contenuta negli artt. 2361 e 2479 n.5 del codice civile. (12)

 

(1) Campobasso “Diritto commerciale” Utet 2006 pg.356 ss., Ferrucci e Ferrentino “Le società di capitali, le società cooperative e le mutue assicuratrici” Giuffrè 2005 pg.609 ss., Minervini, Gli amministratori di società per azioni (Milano, 1956), 88 ss.; G. Ferri, “Le società 2”, in Vassalli (fondato da), Trattato di diritto civile (Torino, 1985), 640 ss.; Gliozzi, “Società di capitali amministratore di società per azioni”)

(2) per un’ampia e dettagliata analisi della fattispecie vedi G.Pescatore “Società di capitali amministratrice di altra società di capitali” su Giurisprudenza Commerciale,36.6,Nov.- Dic. 2009 pagg.1158/I e ss.

(3) art. L225 – 20 “Code de Commerce”

(4) vedasi legge sulle fiduciarie 1966/1939, l’art. 2361 co.2 e 111 disp. Att. sulla possibilità di essere socio di una società di capitali dopo la riforma del 2003.

(5) Jannuzzi ” Manuale della Volontaria Giurisdizione” Giuffrè Milano 1984 pag.48, Stella Richter – Sgroi ” Delle persone e della famiglia” in Comm. Cod. civ. UTET Torino 1967 pag. 388, Santarcangelo ” La volontaria Giurisdizione ” Giuffrè Milano 1986 Vol. II pag. 4.

(6) confronta in tal senso: Salafia “Persone giuridiche amministratrici di Società” in “Le Società”,11,2006, pagg.1325 – 1330.

(7) e vedi già Montalenti ” La traslazione dei poteri di gestione nei gruppi di società: i management contracts “, in Contr. Impr., 1987, pag.464.

(8) art. 2542, 2° comma, c.c.; il previgente art. 2535, 1° comma, stabiliva che “Gli amministratori devono essere soci o mandatari di persone giuridiche socie”

(9) Campobasso “Diritto Commerciale” UTET 2006,pag.356 e ss.

(10) si pensi all’ipotesi di società a responsabilità limitata partecipata esclusivamente da altre società, nel cui statuto non è prevista la deroga di cui al primo comma dell’art.2475.

(11) confronta in tal senso la Massima del Consiglio Notarile di Milano
n. 100 del 18.5.2007, nonchè la valutazione critica di G.Pescatore, op. cit.

(12) “L’oggetto sociale/scopo della persona giuridica amministratrice deve essere compatibile con l’attività di amministrare una società: Fondazioni e/o Associazioni riconosciute non sono idonee in quanto perseguono sempre scopi di interesse generale; le società commerciali devono prevedere nell’oggetto sociale l’attività di amministrazione di altre imprese, non essendo sufficiente l’affinità/uguaglianza del proprio oggetto sociale a quello della società amministrata”.

 

CONTRIBUTI IN DENARO A CARICO DEI SOCI NELLA SOCIETÀ CONSORTILE PER AZIONI.

E’ legittima la clausola dello statuto di una società consortile per azioni che preveda che i soci siano tenuti ad effettuare contributi in denaro in favore della società, in presenza di perdite e nella misura complessiva necessaria a ripianare le stesse, purché la clausola indichi le modalità ed i criteri della determinazione degli apporti.

Sommario: 1. Il contributo in denaro come “soluzione tipicamente consortile”. – 2. Le ragioni di una disciplina speciale per le società consortili e il fondamento dell’art. 2615-ter c.c. 3. Il confine della autonomia privata.

1. Il contributo in denaro come “soluzione tipicamente consortile”.

L’art. 2615-ter, secondo comma, del codice civile dispone che per espressa clausola statutaria i soci di una società consortile possono essere obbligati a versare contributi in denaro. Tale previsione, nell’ambito dell’art. 2615-ter c.c. che ammette il perseguimento dello scopo consortile attraverso l’impiego della forma societaria, ha suggerito implicitamente ad alcuni interpreti una soluzione in via generale al problema della disciplina applicabile ai consorzi in tale forma costituiti.

E’ stato, infatti, da più parti osservato che la deroga esplicita – in quella sede – al principio generale della inammissibilità dell’obbligo di versare denaro ulteriore rispetto al conferimento, conduce ad escludere l’applicazione di norme consortili ad ogni altra diversa ipotesi ed a concludere che le società consortili sono disciplinate dal diritto societario e non dalle norme sul consorzio (1).

Non si può peraltro evitare di considerare nell’ambito di un qualsivoglia studio dedicato alla società consortile che lo scopo tipico del contratto di consorzio – la realizzazione di vantaggi patrimoniali direttamente nelle economie dei singoli consorziati tramite la riduzione dei costi o l’aumento dei ricavi – diviene oggetto della società ai sensi dello stesso art. 2615-ter per richiamo dell’art. 2602 (2).

Conseguentemente, si confrontano nello stesso fenomeno scopo e forma organizzativa di derivazione tipologico-contrattuale diversa.

Tale peculiare circostanza informa l’analisi dei problemi che si presentano all’interprete, ben oltre la approssimativa deduzione, sopra indicata, della applicabilità alla società consortile della sola disciplina societaria.

Non solo: l’applicazione pratica dell’opzione offerta dall’art. 2615-ter c.c. è di gran lunga più complessa di quanto non traspare dal testo della norma. Questa, infatti, ammette in astratto una estensione massima, fino alla portata di un principio di responsabilità illimitata dei soci consorziati.

In proposito, se da una parte il legislatore, nel secondo comma dell’art. 2615-ter, ha suggerito un adattamento della disciplina allo scopo disponendo una “soluzione tipicamente consortile”, dall’altra, l’interazione fra la struttura formale societaria e la specifica causa rende aperto il problema circa la legittimità di clausole statutarie di una s.p.a. consortile che, in deroga alla relativa disciplina legale, tendano a conformare l’organizzazione della stessa allo scopo del consorzio.

L’analisi, d’altra parte, non può essere limitata alle norme derogabili per volontà dei contraenti. Di fronte all’accoppiamento tra organizzazione societaria e scopo consortile, perfino norme di portata imperativa con riferimento alle società lucrative potrebbero regredire al rango di norme dispositive laddove lo scopo perseguito sia di tipo consortile (3).

Così, il secondo comma dell’art. 2615-ter anziché presentare l’unica ipotesi ammissibile di deroga a principi della disciplina societaria, aprirebbe un panorama di possibili deviazioni convenzionali rispetto alle regole societarie.

Si affaccia allora, più in generale, il problema dei limiti della autonomia privata in ordine alle clausole che adattano la disciplina della società alla causa consortile (4).

Anche con riferimento alla ammissibile previsione statutaria dell’obbligo di versare contributi in denaro, fattispecie peraltro non disciplinata in dettaglio dalla norma del codice, si pone il problema di definire i confini della libertà dispositiva.

Se è vero, infatti, che la scelta di gravare i singoli soci dell’obbligo di effettuare versamenti in denaro è legittima per espressa previsione legislativa, viene da domandarsi quale sia la risposta in relazione a clausole che più esplicitamente associno il contributo in denaro a carico dei soci alle perdite prodotte dalla società, nonché alla misura di queste. Se la scelta di imporre per statuto ai soci il versamento di denaro anche in corso di attività possa considerarsi altrettanto legittima qualora configuri, dunque, una responsabilità per le perdite della gestione sociale. Come debba essere letta la clausola in relazione al principio della limitazione della responsabilità nella società per azioni (5). Quali correttivi eventualmente debbano essere previsti per la tutela degli interessi coinvolti.

Si tratta di un caso esemplare per la riflessione in punto di scelta della normativa applicabile: quella che si desume dalla presenza di una struttura organizzativa di s.p.a., o quella che si ricava dallo scopo-oggetto della società?

2. Le ragioni di una disciplina speciale per le società consortili e il fondamento dell’art. 2615-ter c.c.

E’ stato già evidenziato che con il consorzio le imprese contraenti perseguono lo scopo di ottenere un vantaggio economico che si produca direttamente nelle rispettive attività imprenditoriali, aggregando in un centro operativo una o più fasi di tali attività.

Si crea così una correlazione necessaria fra le attività svolte dalle imprese consorziate e il cosiddetto nodo, dalla quale non si può prescindere nell’affrontare i problemi di disciplina. Le imprese consorziate affidano alla gestione della società una fase dell’attività, che altrimenti dovrebbero svolgere in house. Non possono evidentemente prescindere da tale fase e dai servizi che pervengono loro dal consorzio nel corso della relativa attività.

Se la società-consorzio svolge un’attività allo scopo di destinare determinati servizi alle imprese consorziate, le prestazioni dalla stessa devolute ai soci-imprenditori sono il risultato della organizzazione sociale, ma soprattutto sono influenzate dalle condizioni di mercato nelle quali la società consortile opera (6). Ciò significa che stabilire preventivamente il costo di tali servizi – nel momento della stipula dello statuto della società consortile – sarebbe pressoché impossibile e perfino inutile.

Altrettanto inutile sarebbe allora prevedere ab initio l’entità dei contributi che periodicamente o straordinariamente la società richiami, ciò che è espressamente ammesso dalla legge proprio in ragione delle peculiarità dell’attività consortile e del legame fra questa e le attività delle singole imprese in termini mutualistici.

Ciò rende il contratto, che essendo di durata è già esposto al mutamento delle condizioni di mercato, particolarmente vulnerabile al tempo e richiede una spiccata flessibilità proprio in merito ai costi di gestione dell’attività consortile in rapporto ai servizi che il consorzio è tenuto ad offrire ai soci. Come sul mercato muta fisiologicamente il prezzo dei prodotti di un’impresa in considerazione dell’aumento dei costi di gestione e produzione, anche all’interno della società consortile, nel rapporto fra questa e i singoli soci, muta fisiologicamente il prezzo dei servizi.

Tale circostanza può essere gestita di volta in volta, chiedendo ai soci il pagamento del prezzo – naturalmente ridotto rispetto a ciò che riuscirebbero a reperire sul mercato, ché altrimenti non vi sarebbe vantaggio mutualistico – oppure attivando l’obbligo statutario di versare in corso di attività contributi in denaro.

Una gestione non prudente in merito ai costi delle prestazioni può far risultare un disavanzo di esercizio (7).

Quanto premesso dovrebbe risultare sufficiente per comprendere che la natura del fenomeno consortile insieme alla causa del relativo contratto, impongono una spiccata flessibilità nella raccolta dei fondi necessari per lo svolgimento dell’impresa sociale consortile, che è poi quanto corrisponde alla ratio dell’art. 2615-ter, secondo comma.

Il versamento dei contributi, dunque, è funzionale, nel caso appena descritto, alla copertura dei costi di gestione. Così inteso, oltre a non contrastare con l’esigenza di stabilità del rapporto consortile, è ad essa funzionale: la revisione nel tempo delle prestazioni dei soci favorisce, infatti, la longevità del rapporto ben più di quanto potrebbe un vincolo di contribuzione rigidamente determinato, che rischierebbe di divenire poco aderente alla gestione dell’attività comune ed ai bisogni, dunque, delle imprese consorziate.

Dalla premessa che l’impresa consortile “quando vige il principio della mutualità pura non è autonomamente produttiva di un reddito” non può che desumersi la ragione della previsione statutaria per la quale i soci, effettuando contributi in denaro ai sensi del secondo comma dell’art. 2615-ter c.c., provvedano periodicamente a coprire i costi di gestione (8).

3. Il confine della autonomia privata.

Dovrebbe a questo punto essere più chiaro il fondamento dell’ampliamento della libertà di regolare il rapporto societario, ma anche la necessità di un ripensamento sulla tenuta della inderogabilità di alcune disposizioni in materia di società nell’ambito delle organizzazioni societarie che servono lo scopo consortile.

Con particolare riferimento alla clausola in commento, occorre suggerire, alla stregua di quanto osservato nel paragrafo precedente, un giudizio positivo sulla legittimità della stessa anche nella parte in cui prevede che i contributi siano forniti dai soci in presenza di perdite e nella misura complessiva necessaria a ripianare le stesse, con il correttivo di cui appresso (9).

I dubbi sorgono in relazione al fatto che la clausola indichi nelle perdite della società e nell’importo necessario a ripianarle, la misura di riferimento dei contributi in denaro. Si teme, in proposito, la violazione del principio della limitazione della responsabilità da parte di una clausola che preveda versamenti dei soci funzionali alla copertura del disavanzo di gestione (10). Tuttavia, tali dubbi sono superabili proprio in un’ottica consortile che trova nella mutualità pura il suo fondamento: anziché porsi tout court come responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, rispetto a quanto inizialmente conferito dai soci, il contributo in denaro in corso di rapporto che configuri la prestazione a copertura del vantaggio a favore degli stessi soci destinato, è legittimo ai sensi dell’art. 2615-ter c.c.

Ciò rappresenta, peraltro, anche il limite della legittimità della clausola. Giustifica la necessità di individuare una disciplina applicabile al caso in cui i versamenti dei soci ulteriori rispetto ai conferimenti iniziali siano commisurati alle perdite della società, proprio per evitare che dal fenomeno della riscossione in corso di rapporto di contributi necessari per lo svolgimento dell’attività consortile a vantaggio diretto dei soci, si versi nella richiesta di denaro che serva per coprire perdite derivanti da qualsiasi altra causa.

Ciò spiega anche che la legittimità di una clausola che, anziché limitarsi a prevedere l’obbligo per i soci di effettuare ulteriori apporti in denaro (che rappresenta una soluzione tipicamente consortile al problema di determinare il prezzo delle prestazioni destinate ai soci), riferisca genericamente alle perdite di gestione la misura dei contributi, debba determinare le modalità di quantificazione dei suddetti apporti e la ragione specifica del relativo ammontare.

La previsione delle modalità di determinazione dei contributi in base alle quali sia possibile ricostruire la provenienza delle suddette perdite è garanzia di tutela dell’interesse ad una limitata responsabilità per le obbligazioni sociali. E’ materia, questa, se non di statuto, di regolamento interno che potrà essere eventualmente essere sottoposto alla approvazione dell’assemblea generale dei soci da parte degli amministratori della società.

La ragione della necessaria previsione delle modalità di determinazione dei contributi nell’ambito della clausola che li commisuri alle perdite della società non è d’altra parte la stessa che corrisponde alla ratio della disciplina contenuta nell’art. 2345 c.c. che implica di considerare legittima la clausola che disponga l’obbligo di effettuare prestazioni (peraltro non in denaro) a carico dei soci di s.p.a. se solo ne preveda il contenuto, la durata e le modalità. Per le ragioni esposte nel paragrafo precedente, sarebbe infatti inutile e impossibile prevedere in statuto tali dettagli in relazione ai futuri contributi in denaro allorquando la forma societaria serva allo scopo consortile (11). Il confronto con la disciplina delle prestazioni accessorie non pare adeguato al riguardo, per la diversa natura e fondamento delle obbligazioni a carico dei soci: l’esigenza della società di acquisire specifiche prestazioni da parte dei soci (2345 c.c.) e l’esigenza di coprire regolarmente o straordinariamente i costi di gestione con i versamenti in denaro da parte dei soci (2615-ter). Nulla toglie che in una s.p.a. consortile si rendano particolarmente giustificate talune prestazioni accessorie consistenti per esempio in attività lavorativa o specifiche forniture (12). Ma ciò non comporta di dover confondere tipologicamente le prestazioni accessorie con i contributi in denaro ex art. 2615-ter.

Questi, una volta previsti dalla legge, trovano una giustificazione ed una disciplina autonome.

Se è legittimo stabilire che i soci possono essere obbligati a versare contributi in denaro sul fondamento che questi permettano lo svolgimento dello scopo consortile a vantaggio degli stessi, l’imputazione dei versamenti alla copertura delle perdite non può che richiedere il correttivo della precisazione dei modi attraverso i quali si perviene alla determinazione di ulteriori apporti, proprio per sgombrare il campo dalla automatica responsabilità illimitata dei soci (13).

L’indicazione nella clausola statutaria delle modalità di determinazione e dei criteri che la società richiedente il versamento dovrà impiegare al fine della determinazione, rappresentano la indispensabile cornice di legittimità della stessa, laddove non si intenda avvalorare la tesi della ammissibilità di una arbitraria pretesa da parte della società (14).

Una soluzione tipicamente consortile, dunque, quella offerta dall’art. 2615-ter c.c. purché tale, che non rappresenti, cioè, un mero espediente elusivo di una disciplina societaria di applicazione necessaria.

 

(1) V. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 1, Torino 2006, pag. 274 e ss.; CASALE, Le società consortili tra diritto comune, diritto speciale e salutari ripensamenti della Cassazione, in La nuova giurisprudenza commentata, 2005, II, 1, pag. 363; SARALE, La posizione della Cassazione sulla disciplina delle società consortili: i limiti della rilevanza causale sulla forma societaria, in Giur. Comm. 2005, II, pag. 396 e ss.; ID., Consorzi e società consortili, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, vol. 3, pag. 541 e ss.; VOLPE PUTZOLU, Le società consortili, in Trattato delle società per azioni, diretto da COLOMBO e PORTALE, Torino, 1998, pag. 281; PROPERSI, ROSSI, I consorzi, Milano 1992, pag. 59; MARASÀ, Consorzi e società consortili, Torino 1990, p. 121 e ss.; MOSCO, I consorzi fra imprenditori, Milano 1988, pag. 300 e ss.; BORGIOLI, Consorzi e società consortili, Milano 1985, pag. 156 e ss.; SPOLIDORO, Le società consortili, Milano 1984, pag. 147. In giurisprudenza cfr. Cass. Civ., sez. I, 27 novembre 2003, n. 18113.

(2) Cfr. CAMPOBASSO, op. cit., pag. 271 e ss.; PROPERSI, ROSSI, op. cit., pag. 59; MOSCO, op. cit., pag. 260 e ss.; MARASÀ, op. cit., pag. 96 e ss.

(3) Così esattamente MARASÀ, op. cit., pag. 122; in tal senso, fra gli altri, CASALE, op. cit., pag. 364; SARALE, La posizione della Cassazione, cit., pag. 399; VOLPE PUTZOLU, op. cit., pag. 281; BORGIOLI, op. cit., pag. 162; SPOLIDORO, op. cit., pag. 152. Sostiene, invece, che “l’adattamento ai fini consortili degli schemi societari non può spingersi sino a rinnegare le regole societarie inderogabili”, DI SABATO, Istituzioni di diritto commerciale, Milano, 2001, p. 242.

(4) In tal senso v. Cass. Civ., sez. I, 27 novembre 2003, n. 18113.

(5) Secondo Cass., 27 novembre 2003, n. 18113, in Giur. it., 2004, p. 1203, non sarebbe ammissibile una alterazione delle regole societarie che identificano il tipo, rientrando fra queste il principio della responsabilità limitata.

(6) Sul punto, v. VOLPE PUTZOLU, Società consortile, cit., p. 825.

(7) Sul punto si tornerà in seguito, richiamando le puntuali osservazioni di VOLPE PUTZOLU, Società consortile, cit., p. 827, nota 111.

(8) BORGIOLI, Consorzi, cit., p. 163; VOLPE PUTZOLU, Società consortile, cit., p. 827; MARASÀ, Prime valutazioni sulla nuova normativa in tema di consorzi, in Riv. dir. civ., 1977, II, p. 552.

(9) In giurisprudenza, v. su tale ultima possibilità, Cass., 4 marzo 2005, n. 122, in Società, 2005, p. 466; Cass., 11 giugno 2004, n. 11081, in Società, 2005, p. 53.

(10) Così ha dubitato MARASÀ, Prime valutazioni, cit., p. 553 ss.; ID., Le società senza scopo di lucro, p. 245 ss.

(11) La dottrina è unanime nel ritenere che l’indicazione dei contributi non sia essenziale ai fini della validità del contratto”, VOLPE PUTZOLU, Voce Consorzi tra imprenditori, Enciclopedia giuridica, 1988.

(12) ANGELICI, La costituzione della società per azioni, in Tratt. Rescigno, XVI, 1985, p. 256.

(13) Tale impostazione non convince neppure con riferimento al consorzio non in forma societaria. Risulta criticabile, infatti, e accuratamente lo ha fatto PERONE, L’interesse consortile, 2008, p. 222 e ss., l’orientamento che sulle difficoltà interpretative che sorgono dal testo dell’art. 2615 c.c., fonda una ricostruzione della disciplina del consorzio in chiave di responsabilità illimitata dei consorziati.

(14) MARASÀ, Prime valutazioni, cit., p. 553, ritiene che lo statuto dovrebbe almeno determinare il tipo di obbligazioni per il cui adempimento il contributo è richiesto, stante la necessità di salvaguardare il principio di responsabilità limitata dei soci.

 

CATEGORIE DI AZIONI E NOMINA DEGLI AMMINISTRATORI.

È legittima la clausola dello statuto di una s.p.a. che attribuisca ad una o più categorie di azioni il diritto di nominare una componente minoritaria del consiglio di amministrazione o degli organi di controllo; ove una di tali categorie rappresenti almeno la metà del capitale sociale, può esserle riconosciuto il diritto di nominare la maggioranza dei componenti di detti organi.

1. Il quesito.

Ci si chiede se lo statuto di una società per azioni non quotata possa, ed entro quali limiti, attribuire a determinate categorie azionarie il diritto di nominare alcuni componenti del consiglio di amministrazione o degli organi di controllo.

2. La soluzione.

Si ritiene legittima la creazione di categorie azionarie aventi il diritto di nominare uno o più componenti del consiglio di amministrazione o degli organi di controllo (collegio sindacale, consiglio di sorveglianza, comitato per il controllo della gestione). Qualora la categoria rappresenti almeno la metà del capitale sociale, può esserle attribuito il diritto di nominare la maggioranza dei componenti degli organi; alle categorie che rappresentino meno del cinquanta per cento del capitale sociale può invece essere riconosciuto il diritto di nominare una minoranza dei consiglieri o dei sindaci, fermo restando che la nomina della maggioranza di detti organi deve essere rimessa alla deliberazione dell’assemblea ordinaria o, in alternativa, attribuita alla categoria azionaria che rappresenti almeno la metà del capitale sociale.

3. La motivazione. Il nuovo quadro normativo.

La riforma del diritto societario ha, come noto, consacrato in termini generali il principio di atipicità delle categorie speciali di azioni, consentendo all’autonomia statutaria di determinare liberamente il contenuto delle azioni delle varie categorie, nei limiti imposti dalla legge (art. 2348, comma 2).

La possibilità di definire liberamente il contenuto delle azioni delle varie categorie vale a chiarire che la menzione da parte della legge di una determinata categoria o di un diritto modificabile non ha valore di numerus clausus, d’indicazione tassativa delle azioni che possono essere create dall’autonomia statutaria: e ciò al dichiarato intento di valorizzare la creatività degli operatori nell’elaborazione di categorie di azioni che, sebbene non ancora contemplate a livello legislativo, risultino di volta in volta adeguate alla situazione di mercato. Come precisa la Relazione al d.lgs. n. 6/2003, il legislatore della riforma ha ritenuto «opportuno espressamente far riferimento ad alcune ipotesi che, per la loro utilità o per i problemi interpretativi cui hanno dato luogo, meritano una diretta considerazione», pur «rimanendo naturalmente salva la possibilità di elaborare nuove forme di categorie di azioni rispetto a quelle già riconosciute dalla pratica»: sul punto v. per tutti P. FERRO-LUZZI, Riflessioni sulla riforma: la società per azioni come organizzazione del finanziamento di impresa, in Riv. dir. comm., 2005, I, p. 689 ss.; U. TOMBARI, La nuova struttura finanziaria della società per azioni (Corporate Governance e categorie rappresentative del fenomeno societario), in Riv. soc., 2004, p. 1090 ss.; N. ABRIANI, Delle azioni e degli altri strumenti finanziari. Introduzione, in Il nuovo diritto societario diretto da G. Cottino e a., Bologna, 2004, p. 209 ss.; M. NOTARI, Le categorie speciali di azioni, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, 1, Torino, 2007, p. 607 ss.).

Il principio di libera determinazione del contenuto delle categorie azionarie s’iscrive nel quadro di una profonda ridefinizione della struttura finanziaria delle società per azioni, finalizzata a estendere e diversificare i canali di finanziamento e d’investimento nell’impresa azionaria, di cui costituisce un tassello qualificante l’introduzione della nuova figura degli «strumenti finanziari» di cui agli artt. 2346, 2349 e 2351 c.c., che lo statuto può dotare di diritti corporativi, tra i quali il diritto di nominare un componente indipendente degli organi di amministrazione e controllo (art. 2351, ult. co.).

Il principio di atipicità delle categorie azionarie, da un lato, e la norma che consente di attribuire agli strumenti finanziari partecipativi il diritto di nomina “diretta” di un componente degli organi sociali, dall’altro, sembrano porre le premesse per un ripensamento – e convergono, come si vedrà, verso un superamento – della tradizionale impostazione restrittiva che tendeva ad escludere, nel previgente sistema azionario, la legittimità della creazione di categorie azionarie dotate del diritto di nominare uno o più componenti degli organi sociali (in tal senso, v. per tutti A. MIGNOLI, Le assemblee speciali, Milano, 1960, p. 114 ss., G. CASELLI, Vicende del rapporto di amministrazione, in Trattato delle società per azioni diretto da Colombo e Portale, 4, Torino, 1991, p. 20 s.; in

giurisprudenza v. Trib. Venezia, maggio 1989, in Società, 1989, p. 960; Trib. Cassino, 12 aprile 1991, in Riv. notar., 1991, II, p. 1432; per un efficace quadro di sintesi e ulteriori riferimenti, v. R. WEIGMANN, Società per azioni, in Dig. disc. priv., Sez. comm., Torino, 1997, 404; P. SANFILIPPO, Funzione amministrativa e autonomia statutaria, Torino, 2000, p. 323 ss.; A.M. LEOZAPPA, Nomina delle cariche sociali e categorie azionarie, in Giur. comm., 1996, I, p. 800 ss., che già ammetteva un diritto di categoria alla designazione di una rosa di candidati nell’ambito della quale l’assemblea avrebbe eletto gli amministratori).

Se è pur vero che la libertà di determinazione del contenuto delle azioni speciali continua ad incontrare un limite, oltre che in espresse disposizioni di divieto, nei tratti inderogabili della disciplina del tipo s.p.a. (M. NOTARI, Le categorie speciali di azioni, cit., p. 611 s.), il nuovo contesto normativo sembra attenuare significativamente la rigidità dell’assetto organizzativo dell’impresa azionaria in punto di nomina delle cariche sociali.

A quest’ultimo riguardo, i due poli normativi sono tuttora rappresentati, da un lato, dall’art. 2368, primo co., ult. frase, ai sensi del quale «per la nomina alle cariche sociali lo statuto può stabilire norme particolari» e, dall’altro, dagli artt. 2364, primo co., n. 2, 2383, primo co. e 2400, primo co., che assegnano inderogabilmente la competenza alla nomina di amministratori e sindaci all’assemblea in sede ordinaria («L’assemblea ordinaria (…) nomina e revoca gli amministratori; nomina i sindaci e il presidente del collegio sindacale e, quando previsto, il soggetto al quale è demandato il controllo contabile»; «La nomina degli amministratori spetta all’assemblea, fatta eccezione per i primi amministratori, che sono nominati nell’atto costitutivo, e salvo il disposto degli articoli 2351 e 2449»; «I sindaci sono nominati per la prima volta nell’atto costitutivo e successivamente dall’assemblea, salvo il disposto degli articoli 2351 e 2449»).

A seguito della riforma del diritto societario la dialettica tra questi due poli regolamentari – ai quali si ricollega l’art. 2369, comma 4, che esclude la possibilità innalzare statutariamente i quozienti assembleari per le deliberazioni relative alla nomina (e alla revoca) delle cariche sociali – sembra tuttavia atteggiarsi diversamente rispetto al passato, valorizzando quella lettura estensiva dell’art. 2368 già autorevolmente suggerita da chi aveva da tempo ravvisato in quest’ultima disposizione il fondamento di clausole dirette alla «instaurazione di un sistema elettorale affatto difforme da quello previsto dalla legge» (G. MINERVINI, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, p. 18).

Tale lettura evolutiva si ricollega, da un lato, alle indicazioni offerte dal Parlamento nella legge delega n. 366 del 2001, che additava tra i principi ispiratori della nuova disciplina delle società per azioni l’obiettivo di «consentire ai soci di regolare l’incidenza delle rispettive partecipazioni sociali sulla base di scelte contrattuali» (così l’art. 4, 5° co., lett. a); e v. altresì le lett. a) e d) dell’ art. 4, 7° co., nelle quali si indicavano le finalità, rispettivamente, di permettere una semplificazione del procedimento assembleare, anche con riguardo al voto e di riservare un adeguato spazio all’autonomia statutaria in ordine ai quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea); dall’altro, alla concezione eminentemente «finanziaria» dell’impresa azionaria sottesa alla riforma (per tutti, P. FERRO-LUZZI, Riflessioni sulla riforma: la società per azioni come organizzazione del finanziamento di impresa, in Riv. dir. comm., 2005, I, p. 689 ss.), rispetto alla quale pare sistematicamente coerente assecondare meccanismi di rappresentanza delle diverse categorie di azioni (e di altri strumenti finanziari partecipativi) all’interno di quell’organo amministrativo che è oggi chiamato a una delicata opera di mediazione e contemperamento dei diversi (e potenzialmente contrapposti) interessi dei possessori di tali titoli e ad una sintesi degli stessi nella ricerca dell’interesse sociale al quale ispirare l’attività gestoria (in particolare sull’utilizzo della tecnica in esame per le «azioni correlate», v. U. PATRONI GRIFFI, Le azioni correlate, Napoli, 2005, p. 85 ss.).

E ciò partendo proprio dalla disciplina dettata per gli strumenti finanziari dall’art. 2351, ult. co., dall’esame della quale pare dunque opportuno prendere le mosse.

4. Il diritto degli strumenti finanziari partecipativi di nominare un componente indipendente degli organi sociali: corollari dell’art. 2351 ult. co. sul tema in esame.

L’ultimo comma dell’art. 2351 c.c. dispone che agli «strumenti finanziari di cui agli articoli 2346, sesto comma, e 2349, secondo comma, (…) può essere (…) riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco» (art. 2351, ult. co.).

Sul punto si è autorevolmente affermata un’interpretazione strettamente letterale dell’art. 2351, 5° co., che riconosce agli strumenti finanziari, nel loro complesso, il potere di nomina di un solo «componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza» e di un solo «sindaco»; e ciò quand’anche vi siano due o più emissioni di strumenti finanziari, dovendosi in tal caso procedere alla convocazione di un’assemblea intercategoriale o alla individuazione in sede statutaria di altro metodo che consenta a ciascun gruppo di portatori di concorrere alla elezione dell’unico amministratore o sindaco di loro spettanza: così B. LIBONATI, Gli strumenti finanziari partecipativi, in La società per azioni oggi. Tradizione, attualità e prospettive (a cura di Balzarini, Carcano e Ventoruzzo), Milano, 2007, II, 601, il quale ritiene tale soluzione necessitata, per quanto riguarda i sindaci, dal fatto che il loro numero è fissato per legge e da preferirsi, per analogia, anche per quanto riguarda l’amministratore indipendente; nello stesso senso v. anche M. CIAN, Strumenti finanziari partecipativi e poteri di voice, Milano, 2006, p. 118.

È tuttavia rappresentata anche una diversa lettura della norma, secondo la quale l’autonomia statutaria potrebbe sia a) riservare ad ogni categoria di strumenti finanziari la nomina di un consigliere e/o sindaco, sia b) attribuire agli strumenti finanziari (o alle varie categorie degli stessi) il potere di nominare più amministratori o sindaci, purché sia rispettato il limite per cui essi rappresentino al massimo la «metà meno uno del numero complessivo dei componenti dell’organo»: così M. NOTARI, Problemi aperti in tema di struttura finanziaria della s.p.a., in Società, 2005, p.7; e v. ora anche M. NOTARI e A. GIANNELLI, Commento all’art. 2346, in M. NOTARI (a cura di), Azioni, in Commentario alla riforma delle società diretto da P. Marchetti – L.A. Bianchi – F. Ghezzi – M. Notari, Milano, 2008, p. 103, ove il rilievo che «la stessa legge, nel prevedere la nomina di un consigliere indipendente, consente che ai soci sia lasciata solo la metà più uno dei consiglieri totali, come evidentemente avviene allorché il consiglio sia composto da tre membri».

Indipendentemente dalla opzione interpretativa che si ritiene di seguire con riferimento alla portata dell’ultimo comma dell’art. 2351, va qui rilevato che, con riferimento ai titoli azionari, non paiono sussistere le ragioni che giustificano i limiti quantitativi posti dall’orientamento più restrittivo in ordine ai diritti di nomina attribuibili ai titolari di strumenti finanziari. Questi ultimi si configurano infatti normalmente (i.e., in quanto emessi a fronte di un apporto che la società emittente è destinata a restituire) come strumenti di debito, il cui modello di riferimento è lo strumento di associazione in partecipazione, istituto che consente l’attribuzione di diritti di controllo, anche penetranti (art. 2552), ma non il diritto di concorrere alla gestione dell’impresa. È da questo punto di vista che emerge l’eccezionalità della disposizione di cui agli artt. 2351, ult. co. e 2346, ult. co.), in quanto permette a soggetti diversi dagli azionisti (e, almeno di norma, non soggetti al rischio di capitale) di influire sull’assetto degli organi sociali e sugli «argomenti specifici» sui quali può essere altresì chiamata a deliberare la loro assemblea speciale (sul principio di correlazione fra potere e rischio di capitale, in base al quale soltanto i soggetti che corrono il rischio tipico del socio possono influire sulla scelta degli amministratori della società, v. già N. ABRIANI, Il divieto del patto leonino, Milano, 1994, p. 46 ss., nonché G. MIGNONE, L’associazione in partecipazione, in Codice civile, Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 2008, p. 192 s. e ora ID., Strumenti finanziari partecipativi, Il nuovo diritto societario, Commentario diretto da Cottino e a., Bologna, 2009, p. 344, ove si ravvisa nel «principio per cui, se intendo esercitare in comune un’attività economica lucrativa devo concludere un contratto di società e non un altro contratto» un «risvolto di quello di tipicità delle società»).

In questo quadro si giustifica l’esigenza, postulata dalla legge, che agli strumenti finanziari sia consentito nominare unicamente «amministratori indipendenti» e potrebbe altresì trovare spiegazione la restrizione ad uno soltanto dei componenti degli organi sociali, affermata dall’autorevole insegnamento dottrinale sopra richiamato.

Entrambi i limiti non sembrano invece suscettibili di estensione alle categorie di azioni, alle quali lo statuto può dunque riconoscere il diritto di nominare – o di designare – una pluralità di amministratori anche non indipendenti.

Al riguardo va ancora soggiunto: a) che alla soluzione ora delineata si deve pervenire a fortiori, con riferimento alla possibile nomina di una pluralità di amministratori, ove si accolga l’interpretazione liberale, sopra richiamata, che consente la nomina di più di un amministratore da parte degli strumenti finanziari; b) che neppure l’ulteriore limite quantitativo ravvisato da quest’ultima interpretazione – ricollegato all’esigenza che la maggioranza degli amministratori o dei sindaci siano eletti dall’assemblea ordinaria – pare traslabile meccanicamente ai titoli azionari.

A quest’ultimo proposito, in sede di primo commento alla riforma si è osservato che «il perdurante limite quantitativo all’emissione di azioni a voto non pieno e il ribadito divieto di voto plurimo» impongono di «valutare con estrema prudenza la legittimità di clausole dirette a istituire categorie di azioni dotate del potere di nomina della maggioranza» dei componenti degli organi sociali, onde evitare che tali previsioni si pongano «in contrasto con la ratio sottesa ai divieti sin qui esaminati, potendo determinare l’assegnazione del controllo (finanche di diritto) sulla società a chi non possieda adeguate percentuali del capitale di rischio» (N. ABRIANI, Commento all’art. 2351, in G. COTTINO e a., Il nuovo diritto societario, Bologna, 2004, p. 324 s.; in senso conforme v. ora C.F. GIAMPAOLINO, “Nuove” funzioni e questioni delle azioni di categoria, in Studi per Franco Di Sabato, Napoli, 2009, p. 625 ss., per il quale «è necessario che la clausola non eluda al momento della sua introduzione la disposizione che impone che sia la maggioranza del capitale ad essere titolare del potere di nominare e revocare gli amministratori»).

Dal duplice divieto di emettere azioni a voto non pieno in misura superiore alla metà del capitale sociale (art. 2351, comma 2, ultima frase) e di emettere azioni a voto plurimo (art. 2351, comma 4) sembra invero potersi evincere il principio in base al quale (l’insieme de)i titolari di azioni con diritto di voto pieno, che rappresentano (almeno) la metà del capitale sociale, devono vedersi sempre e comunque riconosciuto il potere di assumere un ruolo determinante nelle deliberazioni di nomina delle cariche sociali, e dunque di nominare (almeno) la metà più uno dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo.

Tale regola generale implica, con riferimento agli strumenti finanziari, che non potrà ritenersi legittimo uno schema statutario che attribuisca a non soci il potere di nomina della metà o addirittura della maggioranza degli amministratori (così M. NOTARI e A. GIANNELLI, sub art. 2346, 6° co., cit., p. 103 s., ove il limite massimo della metà meno uno del numero complessivo dei componenti dell’organo viene appunto argomentato sulla base dei «due divieti che nell’art. 2351 continuano ad esprimere la volontà legislativa di preservare un certo rapporto tra proprietà e controllo»).

Viceversa, con riguardo alle azioni, la volontà legislativa di preservare il rapporto tra proprietà e controllo, espressa dai ricordati precetti di cui all’art. 2351, sembra legittimare non soltanto « la creazione in via statutaria di classi di azioni unificate dal diritto di esprimere, in sede di assemblea speciale, un unico membro o una componente comunque minoritaria degli organi sociali in esso menzionati» (N. ABRIANI, op. loc. ult. cit.; conf. F. BONELLI, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004, p. 70 s.; v. V. DONATIVI, Strumenti di corporate governance nel rapporto tra fondi di private equity e PMI, in Banca, borsa, 2008, I, p. 217 s.; A. ANGELILLIS – M. L. VITALI, Commento all’art. 2351, in M. NOTARI (a cura di), Azioni, cit., p. 436 s.), ma altresì la possibilità di riconoscere il diritto di nominare la maggioranza degli organi sociali a categorie di azioni che rappresentino almeno la metà del capitale sociale (U. TOMBARI, Le categorie speciali di azioni nella società quotata, in Riv. soc., 2007, p. 975). Il limite invalicabile dall’autonomia statutaria pare dunque costituito dalla perdurante inammissibilità di «clausole che riservino la nomina della maggioranza degli amministratori a una categoria di azioni che non rappresenti almeno la metà del capitale sociale» (N. ABRIANI, op. loc. ult. cit.; U. TOMBARI, op. loc. ult. cit.; G.F. GIAMPAOLINO, op. loc. ult. cit.).

Più precisamente, dall’art. 2351 si evince la regola secondo la quale le categorie chiamate a nominare complessivamente la maggioranza degli amministratori devono rappresentare, nel loro insieme, almeno la metà del capitale sociale, così da precludere comunque l’acquisizione del controllo di diritto (quanto meno, in ordine alla nomina delle cariche sociali) a chi non sia titolare di almeno il venticinque per cento più una delle azioni emesse dalla società. In questa prospettiva, si ritiene legittima l’attribuzione alle categorie azionarie del diritto di designare un numero di componenti proporzionale all’ammontare delle stesse: si pensi ad una clausola che assegni a tre categorie di azioni, rappresentative ciascuna di un terzo del capitale sociale, il diritto di nomina di tre dei nove amministratori.

Nell’ipotesi in cui il capitale sociale sia diviso nelle categorie di azioni A, B e C, rappresentative rispettivamente del quaranta, trenta e trenta per cento del capitale sociale, sarebbe invece illegittima la clausola che assegnasse alla prima categoria il diritto di nominare cinque dei nove componenti dell’organo amministrativo, ripartendo equamente tra le altre categorie il diritto di nomina dei restanti quattro componenti; legittima sarebbe invece l’assegnazione di tre componenti a ciascuna delle categorie sopra indicate, posto che, per la nomina della maggioranza dell’organo occorrerebbe comunque la titolarità di una partecipazione superiore al venticinque per cento del capitale sociale (nella specie, almeno il trenta per cento più due delle azioni emesse, pari alla metà più uno delle azioni di categoria B e C).

Parimenti legittima deve ritenersi la clausola che, in presenza di tre categorie di azioni A, B e C, rappresentative rispettivamente del cinquanta, venticinque e venticinque per cento del capitale sociale, riconosca a ciascuna categoria il diritto di nominare tre dei nove componenti dell’organo amministrativo; anche in questo caso la nomina della maggioranza dell’organo amministrativo presuppone infatti la titolarità di oltre il venticinque per cento delle azioni emesse (esattamente, il venticinque per cento più due, pari alla metà più uno delle azioni di categoria B e C).

5. Atipicità delle categorie azionarie e diritti speciali di categoria.

Il principio di atipicità delle categorie azionarie, unitamente all’obiettivo normativo di un rafforzamento della struttura finanziaria dell’impresa azionaria e al conseguente atteggiamento di favore verso meccanismi di rappresentanza delle diverse articolazioni della stessa, sembrano dunque giustificare una rilettura evolutiva della regola della competenza assembleare, da intendersi come attribuzione imperativa del diritto di nomina agli azionisti titolari del diritto di voto in assemblea ordinaria. In questo quadro, la stessa formulazione letterale dei primi commi degli artt. 2383 e 2400 c.c., nella parte in cui viene fatto «salvo il disposto dell’art. 2351», vale per un verso a ribadire la possibile (e peculiare) previsione statutaria diretta accordare il diritto di nomina in via eccezionale a non azionisti (quali appunto i portatori di strumenti finanziari); per altro verso, a richiamare le possibili diversificazioni dei diritti corporativi consentite dallo stesso art. 2351 e al contempo i limiti postulati da quest’ultima norma in punto di divieto di emissione di azioni a voto plurimo e di azioni a voto non pieno in misura superiore alla metà del capitale sociale.

È dunque entro tali limiti che potrà dispiegarsi la libertà statutaria nello stabilire norme particolari per la nomina alle cariche sociali, enunciata in termini generali dal primo comma dell’art. 2368, dotando una o più categorie azionare di «diritti diversi» sul punto, in forza del principio di atipicità delle categorie azionarie di cui all’art. 2348.

Sotto questo profilo, va ancora soggiunto che i meccanismi statutari in esame, lungi dal rendere più difficoltosa la nomina (e la revoca) delle cariche sociali (profilo, quest’ultimo, visto con evidente sfavore dal legislatore, che preclude, come si è ricordato, l’elevazione dei relativi quozienti assembleari: art. 2369, comma 4), tendono piuttosto ad agevolare la convergenza dei diversi gruppi di investitori nella formazione della volontà sociale in ordine alla nomina di amministratori e sindaci, permettendone una più compiuta rappresentazione all’interno degli organi di amministrazione e controllo.

Il tutto nell’ambito di un procedimento trasparente e compiutamente regolamentato dallo statuto, che vede formarsi la volontà sociale, alternativamente, attraverso la manifestazione della volontà espressa dalle distinte categorie in sede di assemblea ordinaria generale ovvero all’esito delle deliberazioni assunte da ciascuna categoria nella propria assemblea speciale; con l’ulteriore garanzia rappresentata, in quest’ultimo caso, dalla necessaria verbalizzazione notarile, imposta dal combinato disposto degli ultimi commi degli artt. 2375 e 2376. Sotto questo profilo, non può evidentemente estendersi alle fattispecie in esame la censura mossa da quella giurisprudenza di merito che, anteriormente alla riforma, aveva escluso la legittimità della «clausola statutaria che, pur affidando formalmente all’assemblea la nomina degli amministratori, vincoli l’assemblea alla mera ratifica delle scelte effettuate al di fuori delle sedi statutarie dai gruppi operanti all’interno della compagine sociale» (Trib. Verona 14 febbraio 1989, in Società, 1989, p. 954; e v. anche Trib. Udine, 22 settembre 1993, in Società, 1994, p. 354; Trib. Verona, 11 dicembre 1992, ivi, 1993, p. 950; Trib. Cassino, 13 ottobre 1989, ivi, 1990, p. 362).

Né potrebbe invocarsi l’argomento in base al quale, in presenza di una pluralità di categorie aventi ciascuna il diritto di nomina di una parte degli amministratori, non sarebbero più configurabili «azioni ordinarie». Invero, l’accresciuta possibilità di diversificazioni statutarie accordata dalla nuova disciplina, oltre a ribadire la relatività del concetto di categoria azionaria, induce a rimeditare sulla necessità – in passato pur autorevolmente postulata in dottrina – della necessità della sussistenza di azioni «ordinarie» (così, ma prima della riforma, C. ANGELICI, Le azioni, in Il Codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, p. 67, secondo il quale, «quando ci si trova in presenza di una molteplicità di categorie di azioni, in ogni caso una di esse deve poter essere intesa come composta da azioni ordinarie»). Nel nuovo assetto normativo, pare infatti incontestabile che tutte le azioni possano presentare varianti, più o meno sensibili, rispetto al contenuto paradigmatico della partecipazione azionaria, incontrando l’autonomia statutaria unicamente i limiti posti dalla legge: com’è stato felicemente osservato, «la presenza di una categoria di azioni “ordinarie”, qualora vi siano due o più categorie di azioni, rappresenta il frutto di una scelta rimessa – anch’essa – all’autonomia statutaria, e dipende dalla circostanza (non necessaria) che una delle categorie di azioni non abbia variante alcuna rispetto a quanto derivante dalla disciplina suppletiva e derogabile del tipo società per azioni» (così M. NOTARI, Commento all’art. 2348, in M. NOTARI (a cura di), Azioni Artt. 2346-2362 c.c., in Commentario alla riforma delle società diretto da P. Marchetti – L.A. Bianchi – F. Ghezzi – M. Notari, cit., p. 163 s., ove il rilievo che, del resto, «non esiste nel diritto societario la nozione di azioni ordinarie, come tali mai qualificate dalla legge, né è dato rintracciare alcuna possibile conseguenza di una simile qualificazione sul piano della disciplina applicabile, che rimane la stessa a prescindere dal fatto che una “categoria” di azioni possa dirsi «ordinaria» o «speciale» in dipendenza della distanza rispetto al contenuto tipico e paradigmatico della partecipazione azionaria»). In questo quadro, il capitale di una società azionaria ben potrà essere interamente rappresentato da azioni di categoria – ad es., per un quarto ciascuna, da azioni privilegiate nella partecipazione agli utili, azioni postergate nella partecipazione alle perdite, azioni correlate ed azioni riscattabili – purché la metà delle stesse risulti comunque a voto pieno (e nessuna di esse sia a voto plurimo). Con riferimento alla questione in esame, l’unico vincolo imperativamente posto dall’ordinamento pare dunque rappresentato dall’esigenza che la costituzione delle categorie non determini il duplice effetto – precluso dall’art. 2351 – dell’attribuzione di un voto plurimo ad una di esse ovvero una limitazione del diritto di voto con riferimento ad oltre la metà delle azioni emesse; effetti che si ritiene peraltro di poter senz’altro scongiurare riservando selettivamente il diritto di nomina della componente maggioritaria degli organi sociali alla sola categoria che rappresenti almeno la metà del capitale sociale, e relegando alla nomina di una componente minoritaria il diritto statutariamente attribuibile alle altre categorie di azioni.

6. Sulle modalità di nomina o designazione degli amministratori riservati alle azioni di categoria.

Appurata dunque la legittimità della attribuzione a determinate categorie azionarie, nei limiti sopra ricordati, del diritto di nomina di un determinato numero di componenti degli organi sociali, occorre verificare le possibili modalità attraverso le quali tale diritto può esercitarsi. Anche sotto questo profilo, pare utile un confronto con l’istituto degli strumenti finanziari partecipativi.

Con riguardo alle modalità di assunzione della decisione di nomina del consigliere o sindaco riservato agli strumenti finanziari ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2351 c.c., è opinione prevalente che la votazione da parte dei titolari degli strumenti finanziari partecipativi – al pari di tutte le altre ipotesi in cui essi sono titolari del diritto di voto– debba avvenire sempre e comunque nell’ambito dell’assemblea speciale dei relativi possessori e non nell’assemblea degli azionisti, cui essi non possono partecipare con diritto di voto: in questi termini, per tutti, B. LIBONATI, Gli strumenti finanziari partecipativi, cit., 601; U. TOMBARI, Strumenti finanziari «partecipativi» (art. 2346, ultimo comma, c.c.) e diritti amministrativi nella società per azioni, in Riv. dir. comm., 2006, I, 158; M. NOTARI e A. GIANNELLI, sub art. 2346, 6° co., cit., 101; M. CIAN, Strumenti finanziari partecipativi, cit., 127 s., il quale tuttavia non esclude la possibilità di conferire ai portatori di strumenti il diritto di partecipare alla discussione dell’assemblea generale circa la nomina alle cariche sociali, eventualmente anche con potere di esprimere un parere non vincolante tramite il rappresentante comune.

In questa prospettiva si è ulteriormente precisato:

a) che il diritto di nomina può certamente essere attribuito ai possessori degli strumenti finanziari partecipativi «anche quando essi non diano luogo ad una votazione assembleare, vuoi perché è previsto che esprimano le loro volontà (o anche solo quella inerente la nomina in oggetto) mediante la manifestazione del consenso unanime di tutti i titolari degli strumenti medesimi, vuoi perché si tratta di strumenti finanziari partecipativi non emessi in serie e pertanto non costituenti una categoria suscettibile di votazioni maggioritarie», al limite potendo essere costituiti da un solo strumento finanziario (così M. NOTARI e A. GIANNELLI, op. cit., p. 101 s.);

b) che la nomina in questione può configurarsi tanto come nomina diretta quanto come mera designazione di un soggetto, il quale andrebbe poi formalmente investito dei suoi poteri dall’assemblea generale (nel senso che sia questa la regola dispositiva applicabile ai sensi dell’art. 2351, ult. co., B. LIBONATI, op. ult. cit., p. 601; M. CIAN, op. ult. cit., p. 128; secondo M. NOTARI e A. GIANNELLI, op. cit.., p. 102, spetterebbe allo statuto precisare quale tra i due regimi, di nomina diretta ovvero di designazione, sia applicabile);

Le conclusioni cui la dottrina è pervenuta con riferimento agli strumenti finanziari sembrano, almeno in parte, suscettibili di trasposizione all’ipotesi in cui lo statuto riconosca ad una categoria azionaria il diritto di nominare alcuni componenti degli organi sociali, salvo l’esigenza di assicurare, nella disciplina delle modalità di voto, il rispetto del principio maggioritario ed il diritto del socio all’informazione (A.M. LEOZAPPA, Diritti di categoria e assemblee speciali, Milano, 2008, p. 197 s.).

Il procedimento di nomina andrà pertanto regolato dallo statuto, il quale potrà attribuire all’assemblea speciale della categoria in esame il potere di procedere a) direttamente alla nomina, con deliberazione immediatamente efficace, ovvero b) alla mera designazione dei consiglieri o dei sindaci di sua spettanza, configurando la deliberazione dell’assemblea speciale come il tassello iniziale di una fattispecie a formazione progressiva destinata a concludersi con la deliberazione dell’assemblea ordinaria degli azionisti, la quale, nel prendere atto della decisione dagli azionisti di categoria, perfezioni la nomina dei componenti designati dai primi (e provveda eventualmente a nominare i restanti amministratori e a completare l’organo sociale).

L’autonomia statutaria potrebbe altresì configurare la nomina dell’assemblea speciale come già perfetta, condizionandone semplicemente l’efficacia all’approvazione dell’assemblea generale, che in tale sede potrà unicamente operare un riscontro della legittimità del procedimento.

L’assemblea speciale non costituisce peraltro lo strumento «necessario» per l’esercizio del diritto di nomina degli amministratori (o dei componenti degli organi di controllo) da parte di una categoria, ben potendosi prevedere – a differenza degli strumenti finanziari partecipativi – meccanismi elettorali che contemplino delle «votazioni separate» nell’ambito dell’assemblea ordinaria o una votazione per liste che ciascuna categoria avrà diritto di presentare e a ciascuna delle quali potranno essere riservati, con i medesimi limiti sopra indicati, un determinato numero di consiglieri.

L’esigenza di assicurare comunque la formazione degli organi sociali – che risponde ad un’istanza di ordine pubblico economico ed è evidentemente sottesa al ricordato divieto d’innalzare i relativi quozienti assembleari (art. 2369, comma 4, anche in correlazione all’art. 2484, n. 3 c.c.) – dovrebbe in ogni caso indurre a prevedere una competenza residuale dell’assemblea ordinaria in ordine alla elezione dei consiglieri o dei componenti degli organi di controllo, in ipotesi di mancato esercizio del diritto di nomina da parte delle categorie speciali; o, in alternativa, un ampliamento del potere di nomina della categoria azionaria rappresentativa di almeno la metà del capitale sociale, ove l’altra categoria (o una delle altre categorie) non abbia(no) proceduto alla nomina della componente minoritaria di sua (loro) spettanza, salva comunque l’elezione da parte dell’assemblea generale dei componenti che risultino non nominati dalle assemblee speciali.

7. Diritti di nomina e procedimento unitario di formazione della volontà sociale.

In tutte le fattispecie sin qui considerate non si tratta di assegnare il potere di nomina ad un organo sociale diverso dall’assemblea, bensì di chiarire che la volontà assembleare può legittimamente formarsi tanto simultaneamente nell’adunanza generale dell’assemblea ordinaria (sia pure con meccanismi di voto separato o per liste), quanto progressivamente, attraverso un procedimento parimenti unitario di formazione, di cui costituiscono momenti coessenziali le deliberazioni delle assemblee speciali, nonché la deliberazione dell’assemblea generale nella quale tali deliberazioni confluiscano e che eventualmente integri, completandola, la composizione degli organi sociali (questa ricostruzione del processo di formazione della volontà sociale in presenza di deliberazioni dell’assemblea speciale risale a G. FERRI, Le società, cit., 474 ss.; ID., Manuale di diritto commerciale, Torino, 1996, 384 s. ed è ampiamente sviluppata da C. COSTA, Le assemblee speciali, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G. B. Portale, III, 1, Torino, 510 ss.).

Va del resto segnalato che una segmentazione del procedimento decisionale è espressamente legittimata per le società cooperative dall’art. 2542, comma 3, che, nel consentire allo statuto di riservare la scelta degli amministratori a determinate categorie di soci, si ritiene che consenta votazioni separate per categorie di soci pur nell’ambito della stessa assemblea (nel senso che tale disposizione possa tradursi nello svolgimento di votazioni separate per classi di soci individuati in funzione dell’interesse di ciascuna nell’attività mutualistica, v. per tutti R. COSTI, Il governo delle società cooperative: alcune annotazioni esegetiche, in Giur. comm., 2003, I, p. 242; G. PRESTI Amministrazione e controllo nelle cooperative, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, cit., 3, p. 980 s.). In tale direzione può richiamarsi anche la nuova disciplina della società a responsabilità limitata, che permette l’attribuzione statutaria a singoli soci del diritto esclusivo di designare un determinato numero di amministratori della società (come si evince dal combinato disposto degli artt. 2468, comma 3 e 2475, primo comma, sul quale v. R. RORDORF, I sistemi di amministrazione e di controllo nella nuova s.r.l., in Società, 2003, 667; N. ABRIANI, Commento all’art. 2475, in Codice commentato delle s.r.l. a cura di Benazzo e Patriarca, Torino, 2006, 332; A. BLANDINI, Categorie di soci, categorie di quote, Milano, 2009, ove ulteriori riferimenti).

Si tratta di disposizioni peculiari, legate alla causa mutualistica delle società cooperative, nel primo caso, e alla connotazione più spiccatamente personalistica che la riforma ha inteso assegnare alla nuova s.r.l., nel secondo. Esse, nondimeno, sembrano confermare, sul piano sistematico, il superamento di una visione necessariamente unitaria e monolitica del procedimento di formazione della volontà sociale in ordine alla nomina delle cariche sociali, che nel nuovo contesto normativo attraversa radialmente tutte i tipi societari personificati, incontrando nella società per azioni gli ulteriori limiti, squisitamente capitalistici, connessi, da un lato, al metodo imperativamente collegiale di assunzione delle decisioni sociali, che impone il rispetto del procedimento deliberativo per l’assemblea generale e per l’assemblea speciale di ciascuna categoria azionaria, e, dall’altro, al principio plutocratico e alla correlazione rischio-potere, espressi dall’art. 2351, che riflettono l’esigenza parimenti inderogabile di conservare un corretto rapporto di proporzionalità tra volume dell’investimento operato a titolo di capitale di rischio e potere di concorrere a determinare la composizione degli organi sociali e, più in generale, le strategie dell’impresa azionaria.

In questo quadro merita infine di essere richiamato il nuovo testo dell’art. 2449 che, nella formulazione introdotta dalla l. 25 febbraio 2008, n. 43, dispone che gli statuti di s.p.a. «chiuse» a partecipazione pubblica possano conferire allo Stato o ad altri enti pubblici soci «la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione al capitale sociale», consentendo altresì espressamente che «i diritti amministrativi previsti dallo statuto a favore dello Stato o degli enti pubblici siano rappresentati da una particolare categoria di azioni»: in argomento v. per tutti A. RUOTOLO – E. PUGLIELLI, Nomina e revoca degli amministratori nelle società a partecipazione pubblica (il nuovo testo dell’art. 2449), in Studi e materiali del Consiglio Nazionale del Notariato, Milano, 2009, 1, p. 201 ss.; F. GHEZZI – M. VENTORUZZO, La nuova disciplina delle partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici nel capitale delle società per azioni: fine di un privilegio?, in Riv. soc., 2008, p. 668 ss.; C. IBBA, La società a partecipazione pubblica, oggi, in corso di pubblicazione in Riv. dir. impr., 2010; V. DONATIVI, La nomina pubblica alle cariche sociali nelle società per azioni, in Trattato di diritto commerciale fondato da V. Buonocore, diretto da R. Costi, Torino, 2010).

Tale disposizione, nel ribadire la legittimità del riconoscimento statutario a categorie azionarie di un diritto di nomina degli organi sociali, consente in via eccezionale di accordare tale diritto a determinati azionisti (gli enti pubblici), in deroga al principio-cardine delle società a base azionaria che esclude l’ammissibilità di diversificazioni statutarie tra le posizioni dei soci che non siano fondate sul (e conseguenza del) dato astratto ed impersonale dell’entità e della categoria delle azioni possedute (in argomento, per tutti, M. NOTARI, Le categorie speciali di azioni, cit., 613 s. e P. SFAMENI, Azioni di categoria e diritti patrimoniali, Milano, 2008, p. 178 s.).

L’eccezionalità di tale disposizione va dunque ravvisata nel riconoscimento di diritti speciali direttamente in capo a singoli soci, anche in relazione al principio di parità di trattamento enunciato dall’art. 42 della Direttiva 1977/91 (c.d. Seconda direttiva in tema di capitale sociale); norma, quest’ultima, che peraltro postula un’uguaglianza tra azionisti che si trovino «in identiche condizioni», e lascia dunque salva la possibilità di differenziazioni tra categorie azionarie, in presenza delle quali la regola di parità di trattamento è destinata a trovare applicazione unicamente all’interno di ciascuna categoria (sul precetto comunitario, v. per tutti G. OPPO, Uguaglianza e contratto nelle società per azioni, in Riv. dir. civ., 1974, I, 629 ss.; F. D’ALESSANDRO, La Seconda Direttiva e la parità di trattamento degli azionisti, in Riv. soc., 1987, 4 ss.; C. ANGELICI, Parità di trattamento degli azionisti, in Riv. dir. comm., 1987, I, 1 ss.; da ultimo, anche con riguardo alla corrispondente norma interna dettata, per le società quotate, dall’art. 92 del T.u.f., che impone agli emittenti di assicurare «il medesimo trattamento a tutti i portatori degli strumenti finanziari quotati che si trovino in identiche condizioni», v. G. D’ATTORRE, Il principio di uguaglianza nelle società per azioni, Milano, 2007, ove completi riferimenti). Con l’ulteriore corollario che parimenti eccezionale deve intendersi il limite della regola di proporzionalità enunciato dalla norma ora richiamata – ed imposto dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ne ha determinato la riscrittura (Corte di Giustizia, 6 dicembre 2007, in causa C-464/04, in Giur. comm., 2008, II, 576) – per l’attribuzione di diritti di nomina accordati ad ens publicum (in senso conforme v. ora V. DONATIVI, La nomina pubblica alle cariche sociali, cit., p. 50 ss.). Se tali diritti speciali ad personam possono essere riconosciuti soltanto ad enti pubblici ed in misura proporzionale alla partecipazione sociale da questi detenuta, analoghi vincoli non sono riferibili alle diverse categorie azionarie, che l’autonomia statutaria può liberamente creare nel rispetto dei (soli) limiti postulati da ciascun ordinamento nazionale (e segnatamente, per il diritto italiano, dall’art. 2351), senza che assuma a questo riguardo rilievo il principio di parità di trattamento (come conferma la perdurante presenza in alcuni ordinamenti comunitari dell’istituto del voto plurimo). In questa seconda prospettiva, l’incorporazione del diritto di nomina nei titoli azionari può aver luogo indipendentemente dalla natura (privata o pubblica) dell’azionista cui tali azioni siano destinate, mentre il numero degli amministratori direttamente nominabile dalle singole categorie non dovrà necessariamente essere proporzionale alla quota di capitale sociale rappresentata da ciascuna di esse.

8. Conclusioni: clausole sulla nomina degli organi sociali da parte delle azioni di categoria.

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, deve ritenersi legittima la previsione nello statuto di una società per azioni di categorie azionarie aventi il diritto di nominare uno o più componenti del consiglio di amministrazione o degli organi di controllo (collegio sindacale, consiglio di sorveglianza, comitato per il controllo della gestione), rimettendo la nomina della maggioranza di detti organi alla deliberazione dell’assemblea ordinaria della società.

Deve altresì considerarsi legittima la clausola che incorpori in una categoria di azioni rappresentativa di almeno la metà del capitale sociale il diritto di nominare la maggioranza del consiglio di amministrazione o degli organi di controllo.

Parimenti legittima deve ritenersi la clausola che, operata la divisione del capitale in più categorie di azioni, attribuisca ad una categoria che rappresenti almeno la metà del capitale il diritto di nomina della maggioranza dei componenti degli organi sociali e ad altra categoria rappresentativa della minoranza del capitale, il diritto di nominare gli altri (o alcuni degli altri) componenti di tali organi sociali.

Se a ciascuna categoria rappresentativa della minoranza del capitale sociale può essere riconosciuto il diritto di nominare soltanto una componente minoritaria degli organi sociali, l’insieme di tali categorie può vedersi riconosciuto il diritto di nominare, complessivamente, la maggioranza dei consiglieri (o dei sindaci) qualora dette categorie rappresentino, nel loro insieme, almeno la metà del capitale sociale.

Nei casi sopra considerati, l’autonomia statutaria potrà regolare liberamente il procedimento di formazione della volontà sociale in ordine alla nomina degli organi sociali, prevedendo, alternativamente, una votazione separata nell’ambito dell’assemblea ordinaria (generale) ovvero una deliberazione dell’assemblea speciale o più deliberazioni delle rispettive assemblee speciali. La deliberazione dell’assemblea speciale, potrà essere configurata quale: a) nomina diretta ed immediatamente efficace; b) nomina diretta, ma condizionata nella sua efficacia all’approvazione dell’assemblea generale, che in tale sede potrà unicamente operare un risconto della legittimità del procedimento; c) mera designazione dei componenti che saranno formalmente nominati dall’assemblea generale.

All’assemblea ordinaria andrà in ogni caso riconosciuta una competenza residuale in ordine alla elezione dei componenti degli organi sociali che non siano stati nominati dall’assemblea (o dalle assemblee speciali) delle azioni di categoria.

Nelle ipotesi sopra considerate pare altresì opportuno introdurre nella relativa clausola statutaria meccanismi volti a garantire che la categoria titolare del diritto di nomina della maggior parte dei componenti degli organi sociali continui a rappresentare almeno la metà del capitale sociale, correggendo i potenziali effetti distorsivi derivanti da futuri aumenti di capitale, da operazioni di fusione o scissione, dalla diversa incidenza delle perdite sulle categorie in esame. In particolare, la clausola statutaria potrà prevedere una ridefinizione del numero dei componenti degli organi sociali che ciascuna categoria avrà diritto di nominare allorché si dovrà procedere al rinnovo delle cariche, ovvero un aumento di capitale con emissione di azioni della categoria in numero tale da riportarne il numero ad almeno la metà delle azioni e da eseguirsi prima della successiva deliberazione di nomina delle cariche sociali, che, in difetto, andrà deliberata dall’assemblea ordinaria con il procedimento ed i quozienti previsti in generale dalla legge.

 

CONTENUTO DELLE AZIONI SPECIALI IN S.P.A. CONSORTILE.

In una società consortile per azioni è legittima la creazione di categorie di azioni fornite del diritto ad ottenere prestazioni consortili differenziate in relazione ai servizi offerti dalla società, nonché sottoposte ad una disciplina diversificata con riguardo alla legge di circolazione, allo scioglimento parziale del rapporto sociale, alla tipologia ed alla misura degli obblighi consortili .

L’emissione di azioni speciali non deve necessariamente avvenire a favore di particolari categorie di imprenditori selezionati in base a requisiti soggettivi predeterminati statutariamente.

1. La fattispecie e la soluzione.

Nella prassi si ravvisa la necessità di diversificare le prestazioni rese ai soci di una società consortile, creando eventualmente altresì regimi differenziati in ordine alla circolazione delle partecipazioni o alle cause di recesso ed esclusione.
In tale prospettiva, si ritiene funzionale e legittima, in una società consortile in forma di s.p.a., la creazione di categorie di azioni caratterizzate, sul piano del contenuto, dal diritto ad ottenere prestazioni consortili peculiari e diverse da quelle rese ai possessori di azioni ordinarie o di altra categoria.

La possibilità di emettere azioni speciali come sopra connotate non deve ritenersi condizionata alla predeterminazione statutaria di specifici requisiti soggettivi (p.e: attività esercitata o luogo in cui l’attività è esercitata) qualificanti l’imprenditore sottoscrittore, idonei a giustificare il diverso trattamento in punto di prestazione dei servizi consortili perché nelle società consortili per azioni (e in generale in tutte le società consortili che adottino un modello organizzativo diverso da quello della società cooperativa) non trova applicazione il principio di parità di trattamento sancito nell’art.2516 c.c. per la mutualità cooperativa, salvo diversa ed espressa previsione statutaria.

2. La partecipazione del socio ai servizi consortili configurabile quale situazione giuridica attiva di particolari categorie di azioni.
Per quanto il tema non formi oggetto di trattazione espressa e puntuale, non è revocabile in dubbio che la società consortile organizzata in forma di s.p.a. possa creare categorie di azioni fornite di diritti diversi ai sensi dell’art.2348 c.c..

E’ infatti opinione maggioritaria e consolidata che alla società consortile si applichi la disciplina del tipo societario prescelto, e, pertanto, anche la disciplina delle azioni (1).
Al contempo, tuttavia, è necessario tenere presente, da un lato, che la società consortile è connotata da una funzione precipua, per i più di natura mutualistica, poiché lo scopo di essa consiste nell’erogazione di beni o nella prestazione di servizi principalmente a favore dei soci-imprenditori, che conseguono per tale via un vantaggio patrimoniale mediato direttamente nelle loro economie sotto forma di risparmio di spesa o di maggior guadagno; dall’altro che molteplici regole organizzative delle società (non solo per azioni) sono funzionali allo scopo di lucro indicato nell’art.2247 c.c. (2).

Anche nella circostanza, pertanto, viene in gioco l’interazione fra causa consortile e disciplina societaria concepita in funzione della causa lucrativa.

Muovendo da tale premessa, si rileva, in primo luogo, che vige oggi il principio di atipicità delle categorie di azioni, espressamente sancito nel secondo comma dell’art.2348 c.c., a mente del quale “la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie”.

Ne deriva, nella società per azioni lucrativa, il riconoscimento espresso della facoltà di libera esplicazione dell’autonomia privata nella definizione del contenuto delle azioni speciali (3).
Secondo la dottrina, tuttavia, l’atipicità delle categorie deve confrontarsi con la tipicità delle società e con la disciplina del tipo (4). In particolare, il contenuto delle azioni deve essere coerente e compatibile con la causa tipica del contratto sociale.

Rispettato il principio di coerenza funzionale del contenuto dell’azione speciale alla causa societatis (e di compatibilità con le norme organizzative inderogabili), “qualsiasi situazioni giuridica soggettiva astrattamente attribuibile dallo statuto alle azioni … ed astrattamente suscettibile di una diversa attribuzione ad una parte di azioni rispetto alle altre azioni, è idonea a fondare una categoria azionaria” (5).

Così ragionando, si devono ritenere idonee a fondare una categoria – oltre ai diritti – anche le altre situazioni soggettive, attive e passive, attribuibili alle azioni.
Allorché si ipotizza l’applicazione della disciplina delle categorie di azioni alla società consortile, le conclusioni proposte dalla dottrina in ordine alla creazione di categorie di azioni nella s.p.a. con scopo di lucro, che si condividono integralmente, devono essere sottoposte ad un vaglio di compatibilità e comunque riadattate alla luce della funzione tipica del consorzio.

Se, infatti, la creazione di azioni speciali nella s.p.a. lucrativa è volta ad incentivare l’investimento, in coerenza alla causa societatis, l’emissione di azioni speciali in una società consortile non può che essere funzionale allo scopo perseguibile tramite il consorzio, scopo che, come già ribadito, si attua tendenzialmente mediante l’erogazione di servizi o la produzione di beni a favore dei soci – imprenditori consorziati.

Dunque, la specificità causale della società consortile impone un adattamento del contenuto delle azioni speciali, anche di quelle tipizzate; il principio di libera conformabilità del contenuto delle categorie di azioni sancito nel secondo comma dell’art.2348 c.c. rende legittimo ogni opzione dell’autonomia privata in tal senso.

3. La diversificazione dei servizi a favore dei soci nella realtà consortile.

Nella prospettiva accolta, risulta compatibile alla peculiare causa societatis la creazione di categorie di azioni volte a determinare e organizzare situazioni soggettive differenziate in ordine alla partecipazione ai servizi consortili.
Si immagini una società consortile che esercita plurime fasi di un’attività di impresa: per esempio, agisca come “gruppo di acquisto” di carburante per l’autotrasporto e al contempo svolga anche servizi di lavaggio e rimessaggio degli automezzi; oppure svolga attività di ricerca in un determinato settore produttivo e di marketing per le imprese del medesimo settore.

Può accadere che alcuni imprenditori siano interessati a partecipare solo ad una delle fasi di impresa esercitate dalla società consortile oppure, al contrario, che la società intenda differenziare la prestazione dei servizi.

Pare legittimo a tal fine creare categorie diverse di azioni che diano diritto alla prestazione dei servizi afferenti solo ad alcune, e non a tutte, fra le fasi dell’impresa gestite in forma consortile, azioni eventualmente connotate anche, in via cumulativa o alternativa da peculiari regole in tema di circolazione o in tema di recesso o di esclusione, o in materia di partecipazione ai contributi consortili.

A ben vedere, la soluzione proposta si traduce nel mero adattamento alla causa consortile della figura delle azioni correlate ad un determinato settore dell’attività sociale previste nell’art.2350 secondo comma c.c., adattamento che si traduce nell’assumere come riferimento per la correlazione non i risultati economici di quel settore di attività, ma i servizi resi tramite esso.

4. I limiti dell’autonomia statutaria con riferimento alla creazione di categorie speciali di azioni consortili.
E’ orientamento diffuso che il consorzio e quindi la società consortile siano strumentali alla realizzazione di un interesse mutualistico dei partecipanti consistente in una riduzione dei costi da sopportare o in un incremento dei ricavi conseguiti.

Muovendo da tale prospettiva causale si potrebbe ritenere che la legittimità della creazione di categorie di azioni caratterizzate dall’attribuzione del diritto di usufruire di minori o di maggiori servizi rispetto a quelli resi ad altri azionisti consorziati debba misurarsi con la ricorrenza del principio di parità di trattamento nella gestione dell’attività nei confronti dei soci.

Tale principio è oggi positivamente sancito solo con riferimento alla mutualità cooperativa: l’art.2516 c.c. stabilisce infatti che “nella costituzione e nell’esecuzione dei rapporti mutualistici deve essere rispettato il principio della parità di trattamento”.
A tal proposito si deve evidenziare, in primo luogo, che la ricostruzione della funzione consortile in termini di mutualità non risulta pacificamente condivisa (6).

Ammesso (e non concesso) che sia legittimo discorrere di mutualità consortile, giova rilevare che, relativamente alla società cooperativa, si è autorevolmente sostenuto che “l’affermazione della necessità di rispettare la parità di trattamento negli scambi mutualistici rappresenta un corollario del principio di democrazia che dovrebbe essere presente nelle cooperative e che trova, come si è detto, per quanto attiene alle vicende sociali, la sua espressione più vistosa nel voto per testa. Va da sé poi che questi corollari di uguaglianza nei rapporti societari e nel trattamento mutualistico non si muovono su piani diversi, ma interagiscono fra di loro in quanto espressione di un unico principio di mutualità democratica (e solidaristica) che dovrebbe informare l’istituto cooperativo”(7). Tali considerazioni sembrano porre una forte pregiudiziale all’applicabilità del principio di parità di trattamento nelle società consortili organizzate in forma di società di capitali. La mutualità consortile, se ravvisata, è necessariamente fra imprenditori, e come tale si presta ad essere diseguale.

La soggezione, condivisa, della società consortile alla disciplina del tipo adottato conduce infatti alla piana conclusione per cui il diritto di voto è commisurato all’entità del conferimento, o comunque alla partecipazione al capitale, e pertanto prevale, anche nella società consortile, una logica plutocratica, e non democratica, nei rapporti endosocietari e rispetto alla rilevanza del singolo socio sul piano delle vicende societarie.

D’altro canto, si è rilevato autorevolmente che “l’uguaglianza di cui si è sempre discusso nell’ambito delle cooperative è stata riferita ad un indice di riferimento particolare, che è dato dalla persona del socio, mentre nelle altre società vigerebbe un principio di eguaglianza in senso “proporzionale” alla partecipazione al capitale”(8).

Ne consegue, in coerenza con la medesima logica plutocratica, che anche la partecipazione al vantaggio consortile può essere naturalmente rapportata al rischio economico assunto dal singolo nello svolgimento dell’attività di impresa (9).
Seppur con cautela, la soluzione proposta è a ben vedere già stata indicata allorchè si rilevava che, al di fuori della società consortile in forma di società cooperativa, non sussiste negli altri tipi societari alcun limite alla quota di capitale sottoscrivibile da ciascun socio. “L’unico limite deriva, infatti, dalla convenienza di ognuno. E’ quindi probabile che, per garantire in qualche modo una certa corrispondenza fra entità della quota società e la misura dei vantaggi mutualistici, occorre determinare la prima (al momento della costituzione della società) in funzione della seconda”, nei limiti del rispetto del patto leonino (10).

Ammettere come possibile la ricorrenza di un rapporto di proporzionalità fra entità del conferimento e partecipazione al vantaggio consortile significa legittimare una disparità di trattamento, di ordine quantitativo, fra soci rispetto al secondo, poiché è indubbia la possibilità di eseguire conferimenti di diverso ammontare; poiché il vantaggio consortile può attuarsi tramite il godimento dei servizi consortili, ne consegue la legittimità di una diversità di trattamento rispetto alla prestazione di essi.

In tale prospettiva, ed a conforto delle considerazioni proposte, si evidenzia che anche rispetto alle società cooperative si sta facendo strada la tesi per la quale “l’atto costitutivo e i regolamenti possono derogare all’uguaglianza assoluta dei soci, in relazione al godimento dei servizi sociali, anche a prescindere da situazioni di conflitto”, seppur per categorie di soci (11).

Risulta in definitiva connaturale alla mutualità consortile, se riconosciuta, la facoltà di differenziare la posizione dei singoli consorziati in ordine alla fruizione dei servizi prestati dall’organizzazione.
Sotto questo profilo, pertanto, non sembrano esservi limiti alla possibilità di creare categorie di azioni che incorporino il diritto a prestazioni consortili diverse, non solo in senso qualitativo, ma anche quantitativo, rispetto a quelle di cui possono fruire i consorziati titolari di azioni ordinarie o di azioni appartenenti ad una diversa categoria, in funzione degli obiettivi che i soci e la compagine sociale nel suo complesso si pongono.

(1) G. VOLPE PUTZOLU, Le società consortili, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 1998, pag. 281; A. PROPERSI e G. ROSSI, I consorzi, Milano 1992, pag. 59; G. MARASA’, Consorzi e società consortili, Torino 1990, p. 121 e ss.; G.D. MOSCO, I consorzi fra imprenditori, Milano 1988, pag. 300 e ss.; A. BORGIOLI, Consorzi e società consortili, Milano 1985, pag. 156 e ss.; M.S. SPOLIDORO, Le società consortili, Milano 1984, pag. 147. In giurisprudenza cfr. Cass. Civ., sez. I, 27 novembre 2003, n. 18113.

(2) Al punto che secondo taluno si deve affermare “l’automatica inapplicabilità delle norme societarie attinenti alla funzione lucrativa o incompatibili con la funzione consortile” G. Marasà, Consorzi e società consortili, Torino, 1990, p.121.

(3) M. Notari, Le categorie speciali di azioni, in Il nuovo diritto delle società, Liber Amicorum G.F. Campobasso, diretto a P.Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2007, 594; nello stesso senso U. Tombari, La nuova struttura finanziaria della società per azioni (Corporate Governance e categorie rappresentative del fenomeno societario, in Riv. Soc. 2004, p.1090 ss).

(4) M. Notari, op.ult.cit.p.595 5 M. Notari, op.cit., p.601.

(5) M. Notari, op.cit., p.601.

(6) In tal senso, da ultimo, G. Perone, L’interesse consortile, Milano, 2008, p.77.

(7) G. Bonfante, commento sub. art.2416, in Cottino, Bonfante, Cagnasso, Montalenti, Il nuovo diritto societario, Commentario, ***, Bologna, 2004, p.2410.

(8) A. Bassi, sub art.2516, in Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari (diretto da), Commentario alla riforma delle società, Società cooperative (a cura di Presti), Milano, 2006, p.84.

(9) La stessa prassi conosce, con ampia diffusione, società consortili costituite per l’esecuzione congiunta di lavori, quali stazioni appaltatrici, nei quali l’entità dei lavori affidati al socio, e quindi il vantaggio economico che ne deriva, sono rapportati alla misura della partecipazione al capitale sociale della società consortile, e quindi all’entità dei mezzi patrimoniali investiti per la creazione e l’organizzazione dell’impresa comune.

(10) A. Borgioli, op.cit., p.173. 11 A. Bassi, op.cit., p.85

(11) A. Bassi, op.cit., p.85

 

COMPETENZA DEGLI AMMINISTRATORI PER LA DETERMINAZIONE DEGLI EFFETTI DELLA FUSIONE.

All’organo amministrativo, in sede di attuazione della fusione e di stipula del relativo atto:
a) è sottratta la possibilità di decidere in ordine alla possibile retrodatazione degli effetti contabili (art. 2501 ter, nn. 5 e 6);

b) è rimessa (nella s.r.l. in assenza di diversa indicazione nel progetto o nella decisione dei soci) una completa autonomia in ordine alla possibile postdatazione di tutti gli effetti (art. 2504 bis, comma 2);

c) è rimessa (nella s,r,l, in assenza di diversa indicazione nel progetto o nella decisione dei soci) una completa autonomia in ordine alla possibile retrodatazione degli effetti fiscali (art. 172, comma 9, T.U.I.R.).

1) La fattispecie ed il quesito.
Nella prassi operativa delle operazioni di fusione viene frequentemente richiesto di rimettere all’organo amministrativo, o meglio al legale rappresentante delegato alla sottoscrizione dell’atto, la decisione in ordine agli effetti della fusione. Poiché l’efficacia dell’operazione di fusione è in larga parte sottratta alla disponibilità delle società interessate e fissata dalla legge (cfr. art. 2504 bis, comma 2, c.c.) , in questa sede si vuole verificare quando l’organo amministrativo (e non i soci, os- sia l’assemblea) possa disciplinarne alcune applicazioni, e precisamente:

a) la retrodatazione ex artt. 2501 ter, nn. 5 e 6;
b) la postdatazione ex art. 2504 bis, comma 2;
c) la retrodatazione “fiscale”, ex art. 172, comma 9, T.U.I.R..

2) La soluzione.
Si ritiene che ai quesiti sopra posti possa darsi: sub a) una risposta negativa;
sub b) una risposta positiva;
sub c) una risposta positiva.

3) Ragioni della competenza dei soci in ordine alla retrodatazione (parziale).

La regola generale, secondo cui l’efficacia della fusione deriva dall’“ultima delle iscrizioni prescritte dall’articolo 2504”, soffre una prima eccezione con riferimento alla possibile retrodatazione di alcuni degli effetti, sancita dallo stesso terzo comma dell’articolo.

Si tratta di una possibilità offerta alle società – riferita alla data dalla quale le azioni/quote partecipano agli utili ed a quella dalla quale le operazioni delle società partecipanti sono imputate al bilancio della risultante/incorporante – per intervenire sugli aspetti contabili e reddituali: non sono cioè coinvolti né l’affidamento né gli interessi dei terzi, ma solo profili “disponibili”, in quanto suscettibili di incidere esclusivamente sui rapporti interni tra i soci delle società interessate all’operazione. Inoltre, le due ipotesi di “retroattività”, contabile e reddituale, per quanto solitamente operanti congiuntamente, sono autonome l’una dall’altra e talvolta il progetto ne contempla una soltanto.

Poiché l’opinione pressoché pacifica di dottrina e giurisprudenza milita a favore della competenza dei soci in materia, in questa sede ci limiteremo a ricordarne, schematicamente, le principali argomentazioni:

a) la possibilità di retrodatare alcuni degli effetti della fusione trova fondamento nella norma (art. 2501 ter) che individua il contenuto “minimo” del progetto e quindi, sotto un profilo formale, non può essere rimessa ad una successiva ed autonoma scelta dell’organo amministrativo;

b) la retrodatazione contabile e/o reddituale è suscettibile di incidere profondamente sugli interessi economici dei soci e sulla loro valutazione della convenienza dell’operazione – risolvendo- si nella fissazione del criterio di determinazione e successiva ripartizione degli utili – e quindi, sotto un profilo sostanziale, tale decisione non può essere loro sottratta.

Simili fondanti considerazioni e gli interessi coinvolti spiegano, inoltre, perché:

c) non pare ammissibile, nell’ambito del progetto di fusione, la previsione del conferimento di una delega decisionale in bianco all’organo amministrativo;

d) è ritenuta invalida una retrodatazione assoluta, ossia di tutti gli effetti della fusione, a prescindere dalla circostanza che sia contenuta nel progetto o nella decisione dei soci(1).

4) Ragioni della competenza degli amministratori in ordine alla postdatazione (assoluta).

La possibile postdatazione degli effetti della procedura di fusione si atteggia, invece, in modo radicalmente differente: in primo luogo la legge – art. 2504 bis, comma 2 – offre unicamente la possibilità di postdatare tutti gli – e non alcuni degli – effetti dell’operazione, sottraendo cioè alle società interessate la possibilità di intervenire selettivamente su alcuni specifici aspetti della disciplina e confermando così indirettamente l’eccezionalità della previsione in materia di retrodatazione “obbligatoria”.

La competenza decisionale degli amministratori non trova una specifica norma legittimante, tanto che parte della dottrina ritiene ancora oggi che tale possibilità sia loro preclusa: in perfetto parallelismo con la retrodatazione “obbligatoria e parziale”, sarebbe cioè necessaria una previsione nel progetto di fusione ed una deliberazione/decisione dei soci, espressa anche mediante la generale appronazione dell’operazione (2).

L’argomento letterale appare in realtà assolutamente reversibile. Se manca una norma espressa che attribuisca tale competenza agli amministratori, infatti, è altrettanto vero che nessuna indicazione del legislatore depone in senso contrario: non l’art. 2504 bis, che introduce la postdatazione con un generico “può tuttavia essere stabilita una data successiva”, senza cioè radicare una competenza in capo ad uno specifico organo sociale; non l’art. 2501 ter, che non annovera alcun elemento inerente la postdatazione degli effetti tra quelli che devono risultare dal progetto (a differenza, appunto, della retrodatazione); non l’art. 2502, che dettando il contenuto della decisione dei soci inerente alla fusione non formula alcuna prescrizione in ordine ad eventuali postdatazioni.

Ma è l’analisi “sostanziale” della vicenda che permette di cogliere l’assoluta valenza gestionale della scelta e conseguentemente di giustificare la competenza dell’organo amministrativo, poiché “rimandare” ad una precisa scadenza successiva – ad esempio la fine del mese in corso alla data di sottoscrizione dell’atto – l’efficacia dell’operazione risolve molti problemi concreti, analogamente a quanto viene abitualmente stabilito nelle operazioni di cessione e/o di conferimento di complessi aziendali (3).

A tale risultato, del resto, già si perviene constatando come il sistema rimetta, di fatto, agli amministratori la scelta dell’esatto momento dal quale far decorrere gli effetti della fusione. Essi non possono determinare un giorno preciso, in quanto alla sottoscrizione dell’atto seguiranno i tempi necessari al notaio per svolgere il suo controllo ed inviare la pratica al Registro Imprese e quelli – 5 giorni, ma il termine è ordinatorio – di quest’ultimo ufficio per procedere alla definitiva iscrizione; ma l’avvio di questa fase finale del procedimento è rimesso indubbiamente al loro impulso. Tale  “impulso finale” non è disciplinato da alcuna norma specifica che imponga agli amministratori di sottoscrivere l’atto di fusione entro termini precisi, ma ciò che governa la scelta è il normale parametro di diligenza che informa tutta la loro attività; essi godono pertanto di una discrezionalità tecnica, squisitamente gestoria, che permette un certo arbitraggio indiretto sulla decorrenza degli effetti dell’operazione senza necessità di concordare sulla loro competenza specifica in materia di postdatazione, potendo semplicemente ricorrere ad un ragionato “ritardo” del momento in cui perfezionare l’atto (4).

Proprio da una riflessione su questi ultimi profili, volta a sottrarre la decisione sugli effetti della fusione ad un possibile comportamento scorretto degli amministratori, nasce una proposta interpretativa intermedia (5). Secondo l’Autore che l’ha avanzata, infatti, per quanto vi siano elementi nel sistema idonei a suggerire una competenza degli amministratori, non è ammissibile una incontrollabile attribuzione di poteri: per evitare gli inconvenienti di una simile “indeterminatezza” sarebbe pertanto necessario che le società – rectius i soci in sede di decisione – delegassero espressamente l’organo amministrativo, fissando un termine massimo entro il quale gli effetti devono prodursi; oppure i soci potrebbero demandare agli amministratori la scelta se avvalersi o meno di tale possibilità, ma sempre entro un termine massimo fissato; od ancora potrebbero individuare più termini tra loro alternativi, lasciando agli amministratori l’opzione finale (6).

Le ragioni che fanno preferire la tesi più permissiva muovono dalla considerazione che la preoccupazione espressa coglie in realtà un problema trasversale, presente in ogni procedimento di fusione a prescindere dalla possibilità di postdatazione. Anche nell’ipotesi tipica, come visto in precedenza, gli amministratori possono ritardare, potenzialmente sine die, l’attuazione della fusione, postdatandone “di fatto” gli effetti, ma non per questo si ritiene che l’assemblea debba sempre e necessariamente fissare un termine massimo di attuazione dell’operazione. La possibile responsabilità degli amministratori per condotte non conformi alla diligenza che deve ispirare l’esecuzione di deliberazioni assembleari, non può tradursi nell’enucleazione di un limite alla loro competenza che il legislatore non delinea affatto: né esiste, come rilevato da un recente studio (7), alcun termine massimo per la conclusione del procedimento di fusione, in perfetta coerenza con quanto qui si sostiene

in ordine alla competenza degli amministratori in tema di postdatazione. Nel caso di una fusione in cui la stipula dell’atto sia slittata molto tempo dopo il decorso del termine per l’opposizione, infatti, gli amministratori dovranno valutare se sia necessario un aggiornamento dei dati, se si debba interrompere il procedimento ed eventualmente riavviarlo, o se più semplicemente si possa procedere, rispondendone ove la loro libera valutazione si riveli successivamente errata (8); gli stessi principi ed un’analoga potenziale responsabilità costituiscono i termini di riferimento per la loro scelta sulla postdatazione dell’operazione.

Una posticipazione di pochi giorni, che è quanto la prassi normalmente richiede, non pare violare alcun interesse particolare dei soci e sembra invece rispondere a comprensibili esigenze gestionali di predeterminazione degli effetti, possibilmente ad una data che minimizzi i problemi operativi conseguenti alla fusione stessa; una posticipazione di durata superiore, invece, può sollevare interrogativi che trovano risposta ed adeguata garanzia nei principi sopra ricordati.

Il radicamento in capo agli amministratori della valutazione sull’eventuale postdatazione produce un ulteriore effetto positivo, perché permette di individuare una data certa dalla quale l’operazione produrrà i suoi effetti, senza scontare quel – pur minimo – margine di incertezza legato alla tempistica degli adempimenti finali, di competenza del notaio e del Registro delle Imprese (9).

5) La disciplina della possibilità di postdatazione degli effetti rimessa agli amministratori. Individuata nel sistema la competenza dell’organo amministrativo, resta da stabilire quanto essa sia ampia in relazione alla tipologia di fusione posta in essere e se possano essere introdotti dei limiti al suo esercizio.

Partendo da quest’ultimo punto, si ritiene che anche ove il progetto di fusione – nel suo contenuto facoltativo – fissi alcuni principi in ordine all’efficacia dell’operazione, almeno nella s.p.a. permanga per gli amministratori uno spazio autonomo d’intervento. Il riparto di competenze interno alla s.p.a. che emerge dai nuovi indici normativi – cfr. artt. 2364 n. 5 e 2380 bis – e la già ribadita natura squisitamente gestionale delle scelte in ordine alla postdatazione degli effetti, indicano infatti che la mera circostanza dell’inserimento di indicazioni al riguardo nel progetto, approvato dai soci, o la loro formulazione direttamente nel corpo della delibera di approvazione della fusione, non costituiscono elementi tali da rendere queste “istruzioni” vincolanti per gli amministratori, che manterranno intatta la loro autonomia decisionale.

La soluzione è invece diversa per la s.r.l., per la quale il progetto approvato dai soci o la decisione di fusione, contenenti indicazioni in ordine alla postdatazione degli effetti, assumono il carattere di direttiva vincolante, che gli amministratori non possono disattendere in sede di attuazione dell’operazione.

L’impatto operativo della soluzione proposta è poi destinato ad ampliarsi ove si ritenga di smentire l’assunto, letteralmente indiscutibile, della seconda parte del secondo comma dell’art. 2504 bis, secondo cui solo “nella fusione mediante incorporazione può tuttavia essere stabilita una data successiva”.

La considerazione che sarebbe “davvero arduo, anche dal punto di vista logico, concepire un soggetto giuridico (la società risultante dalla fusione) esistente (in quanto la fusione è stata regolarmente stipulata e resa pubblica), ma privo di patrimonio (in quanto la fusione non ha prodotto i suoi effetti) e dunque incapace di fungere da centro di imputazione di responsabilità” (10), trovava sino ad anni recenti numerosi supporti in dottrina (11), ma ad un più attento esame appare superabile e forse fondata su un equivoco di fondo (12). Se infatti si parte dalla premessa che la postdatazione incide su tutti gli effetti giuridici della fusione, non può assolutamente verificarsi alcun “vuoto” di responsabilità o di imputabilità di rapporti: la nascita della società risultante e la confusione dei patrimoni delle società partecipanti alla fusione, infatti, si producono nello stesso momento, siano esse postdatate rispetto alla iscrizione dell’atto nel registro delle imprese oppure ad essa contestuali.

La ormai raggiunta identità di vedute circa la ricostruzione teorica delle tipologie di fusione – per incorporazione e propria –, entrambe ascrivibili alla categoria delle modificazioni statutarie delle società partecipanti (13), rende la soluzione più agevole e coerente e porta a concludere che “non vi è alcuna ragione pratica, logica o giuridica per negare la possibilità di introdurre nell’atto di fusione clausole di postdatazione degli effetti della fusione anche laddove si tratti di fusione propria e non per incorporazione” (14).

6) La retrodatazione “fiscale”.
Un ulteriore esempio di dissociazione di alcuni effetti della fusione, anche se di rilievo non civilistico, emerge dall’esame della normativa fiscale e conferma che, nella poliedricità di questa operazione, sussistono alcune valutazioni, di natura squisitamente gestionale, che ritagliano per l’organo amministrativo un autonomo spazio decisionale.

L’art. 172, comma 9, del T.U.I.R., prevede che “l’atto di fusione può stabilire che ai fini delle imposte sui redditi gli effetti della fusione decorrano da una data non anteriore a quella in cui si è chiuso l’ultimo esercizio di ciascuna delle società fuse o incorporate o a quella, se più prossima, in cui si è chiuso l’ultimo esercizio della società incorporante”: in continuità con il precedente art. 123, comma 7, la norma fiscale affida tale scelta ad una opzione espressa nell’atto e quindi, pacificamente, per la dottrina commercialistica e tributaria, agli amministratori che lo pongono in essere. Nessun dubbio viene manifestato sul fatto che il limite legale espresso sia inderogabile, al punto che l’interpretazione è di tipo meramente formalistico: l’opponibilità “fiscale” della retrodatazione dipende esclusivamente dalla opzione espressa in atto dagli amministratori, a nulla valendo che sia di- sposta dal progetto o dalla delibera e sia semplicemente richiamata nell’atto (15).

Detto “formalismo” trova peraltro sostegno nell’esame degli interessi concreti sottesi alla scelta (16) e già un’attenta dottrina concordava, in anni non più recentissimi, con tale valutazione: esaminando la possibilità per gli amministratori di apportare modifiche al progetto di fusione – prima dell’attuale e più permissivo art. 2502, comma 2 – ne ammetteva la sussistenza quando “esse si riferiscano ad una sfera di esclusiva competenza degli amministratori, come appunto è a dirsi della clausola di retroattività fiscale, la quale concerne una materia, quella della politica appunto fiscale dell’impresa, come tale riservata, in via di principio, alle competenze degli amministratori” (17).

La tendenziale coincidenza pratica della scelta in ordine agli aspetti contabili (art. 2501 ter, nn. 5 e 6) e fiscali (art. 172, comma 9, T.U.I.R.), infine, non esclude che la loro disciplina rimanga profondamente differente:

a) la scelta sui primi è anticipata alla fase della redazione del progetto e presuppone un’approvazione dei soci, mentre per i secondi l’organo competente è quello amministrativo;

b) essi possono anche risultare disallineati (ad esempio retrodatati i primi e non i secondi), per una serie di valutazioni concrete relative alla singola operazione di fusione;

c) il limite legale della retrodatazione “civilistico-contabile” è desunto dal sistema e coincide con l’approvazione del bilancio di esercizio delle società partecipanti alla fusione; quello della retrodatazione “fiscale” è esplicito e fissato dal legislatore con la chiusura dell’ultimo esercizio di ciascuna delle società fuse o incorporate o a quella data, se più prossima, in cui si è chiuso l’ultimo esercizio della società incorporante.

(1) Per un inquadramento generale della retrodatazione, per il suo ambito “obbligatorio” e per la necessità di prevedere nel progetto, e quindi sottoporre alla decisione dei soci, tali opzioni, vedi in generale: C. Santagata, Le fusioni, in Tratt. delle soc. per azioni, diretto da G. E. Colombo e G. B. Portale, vol. 7**1, Torino, 2004, p. 224 ss.; G. Ferri jr., Modificabilità e modificazioni del progetto di fusione, Milano, 1998, p. 138 ss.; F. Magliulo, La fusione delle società, Milano, 2005, p. 314. In particolare, sulla possibilità di retrodatare solo alcuni degli effetti e quindi sulla reciproca autonomia delle previsioni di cui ai nn. 5 e 6 dell’articolo, vedi, ex multis, M. Di Sarli, Commento sub art. 2504-bis, commi 2 e 3, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, L. A. Bianchi, F. Ghezzi e M. Notari, Milano, 2006, vol. Trasformazione – Fusione – Scissione, p. 843 ed ivi p. 847; A. Serra e M. S. Spolidoro, Fusione e scissione, Torino, 1994, p. 144; G. Ferri jr, op. cit., p. 153 ss.; C. Santagata, op. cit., p. 232.

(2) Vedi, per tutti, G. F. Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, Torino, 2009, p. 564.

(3) Già in questo senso P. Marchetti, Appunti sulla disciplina della fusione, in Riv. Not., 1991, I, 45; concordano oggi su questa ricostruzione, pur con differenti motivazioni, F. Magliulo, op. cit., p. 308 ss.; A. Serra e M. S. Spolidoro, op. cit., p. 142; E. Civerra, Le operazioni di fusione e scissione. L’impatto della riforma e la nuova disciplina di leverage buy out, Milano, 2003, p. 131.

(4) Coglie questo aspetto, ad esempio, F. Magliulo, op. cit., p. 309.

(5) C. Santagata, op. cit., pp. 567-568. Contrario ad una competenza degli amministratori sul punto, con motivazioni sostanzialmente simili, anche M. Perrino, Commento sub. artt. 2504-2504 ter, in Società di capitali. Commentario, a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, vol. III, Napoli, 2004, p. 1974 ed ivi p. 1976, sub nota 14.

(6) Secondo C. Santagata, op. cit., 567, “si lascia intendere che la postdatazione potrebbe essere introdotta anche in sede di stipulazione dell’atto di fusione, siccome risulta dalla localizzazione della norma e dalla stessa indicazione della Relazione”; ma proprio per tali ragioni, poiché “potrebbe sostenersi che nessun limite sia imposto all’autonomia della società nello «stabilire» una «data successiva»”, “salvo ipotesi particolari (l’esigenza di un’autorizzazione governativa e simili), deve escludersi l’incontrollata attribuzione ai rappresentanti del potere di introdurre nell’atto di fusione la clausola di postdatazione senza che sia previamente stabilita la «data successiva»”.

(7) Studio del CNN n. 154-2007/I , Il “termine massimo” per la conclusione del procedimento di fusione” .

(8) Nello studio citato alla nota precedente si legge infatti: “Quando fra le varie fasi del procedimento intercorre un lasso di tempo considerevole, il problema dell’aggiornamento del progetto sottoposto alla approvazione assembleare e della stessa stipulabilità dell’atto di fusione – e, potremmo aggiungere, della postdatabilità della stessa – riguarda non solo le indicazioni relative ai dati contabili ma anche quelle concernenti altri dati. E ciò può obbligare gli amministratori, su cui incombe la relativa responsabilità, a procedere, a seconda dei casi, all’aggiornamento dei dati ovvero ad interrompere ed eventualmente ricominciare la procedura, a prescindere dall’esistenza di un termine ordinamentale massimo, legato agli adempimenti procedurali, da cui poter desumere la correttezza o meno dello stesso procedimento di fusione”.

(9) Il pensiero corre a quelle frequenti richieste di decorrenza dell’operazione – atto in dicembre ed effetti dal 1° gennaio dell’anno successivo – realizzabili attraverso una serie di accorgimenti pratici non facilmente gestibili. Tale risultato potrebbe essere raggiunto anche se l’organo competente fosse l’assemblea – i soci –, ma le difficoltà di valutazione del termine idoneo aumenterebbero considerevolmente, vista la distanza tra la deliberazione – decisione – e gli adempimenti finali, determinandosi così il rischio di una postdatazione più ampia del necessario.

(10) Così la Relazione di accompagnamento al d. lgs. 22/1991.

(11) Vedi G. F. Campobasso, op. cit., p. 654; G. Laurini, Manuale breve della s.r.l. e delle operazioni straordinarie, Padova, 2004, p. 130; L. Salvato, Le operazioni di fusione e scissione, in Aa. Vv., Manuale di volontaria giurisdizione, a cura di V. Salafia, Milano 1999, p. 648; A. Serra e M. S. Spolidoro, op. cit., p. 142.

(12) Così C. Santagata, op. cit., p. 566.

(13) Per un aggiornato quadro del dibattito storico sul punto vedi, ex multis, F. Dimundo, Commento sub art. 2504 bis, comma 1, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, L. A. Bianchi, F. Ghezzi e M. Notari, Milano, 2006, vol. Trasformazione – Fusione – Scissione, p. 813 ss..

(14) Così F. Magliulo, op. cit., p. 311; favorevoli alla tesi preferita anche C. Santagata, op. cit., p. 567; A. Picciau, Osservazioni alle istruzioni del Tribunale di Milano per la omologazione in materia di fusione, in Foro it., 1991, IV, p. 500; M. Di Sarli, op. cit., p. 846.

(15) Vedi sul punto A. Genovese, La decorrenza dell’effetto e la retroattività contabile della fusione, in Riv. soc., 2000, 141 ed ivi pp. 184 e 187 ss., oltre agli Autori citati alla nota 169 per un esame dalla visuale esclusivamente fiscale.

(16) Della medesima opinione sembra essere F. Magliulo, op. cit., p. 315.

(17) G. Ferri jr., Fusione retroattiva e modificabilità del progetto, in Studi a materiali, 6.1., Milano, 2001, 10 ed ivi p. 16; opinione confermata successivamente in una risposta a quesito n. 1-2006/I, Retrodatazione degli effetti contabili e fiscali della fusione e facoltà di modificare l’atto di fusione.

 

CLAUSOLE LIMITATIVE DELLA CIRCOLAZIONE DELLE AZIONI.

Purché contenuta entro il limite di cinque anni, è legittima una clausola statutaria che preveda qualsiasi forma di limitazione alla circolazione delle azioni, ancorché essa non garantisca al socio la possibilità di liquidare la quota, oppure garantisca tale possibilità ma consentendogli di realizzare per le sue azioni un valore inferiore a quello che deriverebbe dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 2437-ter c.c.

Per contro, una clausola che limiti significativamente, o addirittura vieti, l’alienazione delle azioni e la cui efficacia temporale non sia limitata o superi i cinque anni, è efficace solo qualora assicuri al socio la possibilità di realizzare per le sue azioni almeno il valore che deriva dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 2437-ter o, quando essa precluda un progettato trasferimento a terzi, quando assicuri al socio la possibilità di realizzare lo stesso prezzo eventualmente offerto dal terzo, anche se in ipotesi inferiore al valore di cui all’art. 2437-ter.

È legittima qualsiasi forma di clausola limitativa del diritto dell’acquirente mortis causa ad ottenere l’iscrizione nel libro dei soci, purché essa preveda espressamente che, in caso di mancata iscrizione, egli ha diritto di realizzare per le sue azioni il valore che deriva dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 2437-ter c.c.

1) La fattispecie e il quesito

Ci si chiede quali tipologie di clausole limitative della circolazione delle azioni siano compatibili con l’art. 2355-bis c.c., sia con riferimento ai trasferimenti inter vivos, sia con riferimento ai trasferimenti a causa di morte.

2) La soluzione

Si ritiene che l’art. 2355-bis consenta un’ampia autonomia statutaria nella limitazione della libera circolazione delle azioni, sia inter vivos che mortis causa, purché nel rispetto di tre principi: a) la temporaneità di limiti che comprimono notevolmente o eliminano la possibilità di cedere le azioni per atto tra vivi; b) la necessità, per limiti alla circolazione non temporanei, di assicurare al titolare delle azioni la possibilità di liquidare la partecipazione ad un valore congruo; c) la limitabilità od escludibilità della circolazione a causa di morte, con il pendant dell’attribuzione all’acquirente mortis causa del diritto ad una liquidazione a valore congruo.

3) La motivazione

3.1.) Con l’introduzione dell’art. 2355-bis il legislatore ha innovato profondamente la disciplina dei limiti statutari alla circolazione delle azioni. Tale norma realizza un contemperamento fra gli interessi dei soci e della società a controllare la circolazione delle partecipazioni sociali e l’interesse di colui che intenda disinvestire realizzando il valore delle proprie partecipazioni.

Tale contemperamento, per quanto riguarda la circolazione delle partecipazioni inter vivos, risulta dalle seguenti disposizioni espresse, contenute rispettivamente nel primo e nel secondo comma:

–  è legittima una clausola che vieta l’alienazione delle azioni, purché la sua durata temporale sia contenuta entro un periodo massimo di cinque anni dalla costituzione della società o dall’introduzione della clausola;

–  è legittima (senza termine) una clausola di mero gradimento, purché essa consenta al socio di disinvestire (in forme varie) al valore determinato in base all’art. 2437-ter per il caso di recesso.

Per quanto riguarda la circolazione mortis causa, il legislatore ha espressamente previsto, nel terzo comma della norma in questione, che le limitazioni statutarie alla circolazione delle azioni possono opporsi anche all’acquirente mortis causa, purché, in caso di mancata iscrizione nel libro dei soci, esse gli garantiscano la liquidazione in una delle varie forme previste dal secondo comma.

3.2.) Per quanto riguarda la circolazione inter vivos, le due innovazioni previste dal primo e secondo comma, se lette nel loro insieme, danno indicazioni chiare sugli interessi che il legislatore ha voluto tutelare. Tali interessi appaiono i seguenti:

1)  entro il limite dei cinque anni, riconoscimento e tutela dell’interesse della compagine sociale a “chiudersi”, anche in modo forte e con totale compressione dell’interesse del socio ad alienare la propria partecipazione;

2)  oltre tale limite, invece, l’interesse alla chiusura della compagine sociale deve contemperarsi con quello del socio a poter disinvestire, alle condizioni ottenute sul mercato o, in difetto, a quelle minimali previste dall’art. 2437-ter, e ciò qualunque sia la forma giuridica con la quale si voglia ottenere tale chiusura.

La norma, nonostante il carattere specifico delle due disposizioni citate, ha dunque una valenza generale. Essa, entro il limite dei cinque anni, ammette la “prigionia” totale del socio, mentre per periodi superiori a cinque anni, o indeterminati, ammette ipotesi parziali ma anche forti di “prigionia” del socio, purché esse siano accompagnate dalla previsione di modalità di disinvestimento tipizzate e fissate nel 2355-bis (c.d. “correttivi esterni”) o a queste del tutto equivalenti, quale l’acquisto delle azioni da parte di un terzo designato dalla società (1).

Più in particolare, per quanto riguarda il secondo punto, benché il legislatore disciplini gli effetti di una sola ipotesi di prigionia parziale (quella della clausola di gradimento mero, legittima se accompagnata da “correttivi”), è evidente che la medesima disciplina deve applicarsi alle altre ipotesi che possono produrre il medesimo effetto: ad esempio, la prelazione impropria, che impedisce il progettato trasferimento delle azioni per effetto di una scelta discrezionale, e il divieto di alienazione, che lo impedisce del tutto (2). Anche queste, dunque, se producono una “prigionia qualificata”, sono legittime a condizione che soddisfino i medesimi requisiti di tollerabilità richiesti dal legislatore.

Al contrario, le clausole statutarie che non producono l’effetto di chiusura (quali, ad esempio, la clausola di gradimento non mero, la clausola che prevede requisiti soggettivi che i soci devono possedere (purché non eccessivamente restrittive), o la clausola di limite al possesso azionario) non necessitano, per la loro legittimità, di alcun correttivo.

3.3.) Se questo è vero, il limite dei cinque anni costituisce un importante discrimine: al suo interno, qualunque compressione della libertà di alienare sembra autorizzata, essendo esplicitamente consentita dal legislatore anche quella massima costituita dal divieto di alienazione. Ne consegue che, se limitate nel tempo ad un massimo di cinque anni, sono da ritenere legittime:

–  una clausola di prelazione che consente l’acquisto in prelazione ad un prezzo anche inferiore a quello determinato in base all’art. 2437-ter (oltre che ovviamente, inferiore al prezzo offerto dal terzo): anche qualora i criteri per la determinazione del prezzo d’acquisto in prelazione fossero particolarmente penalizzanti, essa sarebbe infatti prossima, quanto agli effetti, ad un divieto di alienazione, certamente legittimo, e rispetto a questo offre al socio una possibilità in più, di cui egli è sempre libero di non avvalersi (non alienando);

–  una clausola che consente il gradimento mero anche senza alcun “correttivo”, o con corrispettivo inferiore a quello determinato in base all’art. 2437-ter: essa costituisce comunque un minus rispetto al divieto di alienazione, e non è ben distinguibile da un divieto di alienazione che per statuto potesse essere rimosso, volta per volta, da una deliberazione assembleare o consiliare (divieto di alienazione “rimuovibile in concreto” certamente legittimo) (3). Resta fermo, in tal caso, il diritto del socio ad un uso “non abusivo” della clausola (4);

–  una clausola che prevede requisiti soggettivi che gli acquirenti devono possedere che, in astratto o in concreto, risultino tali da rendere particolarmente difficile l’alienazione: anche tale clausola appare un minus rispetto alla clausola di divieto che, come detto, è legittima (5).

3.4.) Oltre il limite dei cinque anni, invece, o allorché la clausola non abbia un’efficacia espressamente contenuta entro tale limite, riprende vigore il diritto del socio al disinvestimento a valore “pieno”, che deve essere individuato in quello conseguibile dal terzo sul mercato o, in difetto, in quello determinato in base alla “norma di chiusura” di cui all’art. 2437-ter. Ne consegue che sono da ritenere legittime:-  una clausola di gradimento “mero” che preveda un correttivo commisurato al valore determinato in base all’art. 2437-ter (come espressamente previsto dalla legge), oppure al prezzo offerto dal terzo, oppure infine al minore fra i due valori. È infatti irrilevante la circostanza (peraltro normale) che i due valori possano differire, e che il prezzo di mercato sia inferiore al valore determinato in base ai citati criteri di legge: la norma, con il richiamo all’art. 2437-ter, intende assicurare al socio un meccanismo di soddisfazione (e un valore) alternativo a quello di mercato, e non necessariamente un diritto a percepire quel valore quando quello che egli aveva reperito sul mercato era inferiore (6);

–  una clausola di prelazione che consenta l’acquisto al prezzo offerto dal terzo o a quello, eventualmente diverso, determinato in base all’art. 2437-ter, o al minore fra i due: ciò per gli stessi motivi ora visti per la clausola di gradimento;

–  una clausola che preveda requisiti soggettivi degli acquirenti tali da rendere particolarmente difficile l’alienazione, a condizione che essa attribuisca al socio un diritto a disinvestire al valore determinato in base all’art. 2437-ter, diritto che sia attivabile dal socio in qualsiasi momento (sotto forma di recesso o meccanismo equivalente): anche tale clausola, che può approssimarsi al divieto di alienazione (7), appare infatti soddisfare l’interesse tutelato dalla norma;

–  una clausola di puro e semplice divieto di alienazione, se attribuisce al socio il medesimo diritto di disinvestire al valore determinato ai sensi dell’art. 2437-ter, anche in questo caso attivabile dal socio ad nutum.

3.5.) Per quanto riguarda i trasferimenti mortis causa, il terzo comma è chiaro nel prevedere che, quali che siano la struttura e il funzionamento di dettaglio della clausola (“…in ogni ipotesi di clausole…”), all’acquirente mortis causa ( 8 ) devono essere consentiti, in alternativa, l’acquisto della qualità di socio oppure la possibilità di liquidare le azioni possedute al valore risultante dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 2437-ter c.c. (9). Il diritto dell’acquirente mortis causa alla liquidazione delle azioni, che in caso di clausola di gradimento viene disattivato dalla concessione del placet, per le clausole diverse da questa viene disattivato dall’iscrizione nel libro dei soci, a seguito della quale viene meno il presupposto della tutela “per equivalente”.

La possibilità del disinvestimento deve essere prevista dallo statuto affinché la limitazione sia efficace rispetto ai trasferimenti mortis causa, in quanto il terzo comma, nel richiamare la “disposizione del precedente comma”, non detta una modalità di liquidazione dell’acquirente a causa di morte (come nella società a responsabilità limitata: v. art. 2469 secondo comma), ma eleva l’esistenza di una modalità statutaria di liquidazione di questi a condizione d’efficacia della medesima clausola.

In sintesi, dunque, è legittimo assoggettare i trasferimenti a causa di morte a uno qualsiasi dei limiti alla circolazione astrattamente prevedibili inter vivos, che devono essere opportunamente conformati per adattarsi al caso del trasferimento mortis causa mediante:

–  l’espressa indicazione che tale tipo di trasferimento è incluso fra quelli soggetti a limiti alla circolazione;

–  l’espressa previsione di uno o più “correttivi esterni”, e ciò anche nei casi in cui essi non sarebbero necessari per i trasferimenti inter vivos (ad esempio, clausola non di mero gradimento, clausola che prevede requisiti soggettivi, o clausola di limite al possesso azionario).

Si precisa che pare ammissibile anche la previsione di una pura e semplice intrasferibilità mortis causa, in quanto la legge, come è chiaramente evincibile dal terzo comma dell’art. 2355-bis, non ha inteso assicurare all’acquirente mortis causa l’acquisto della qualità di socio, ma semplicemente (ed in alternativa all’iscrizione nel libro dei soci) il diritto alla liquidazione al valore desumibile dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 2437-ter. In sostanza, il divieto di trasferimento a causa di morte si traduce in una obbligatoria offerta di possibilità di liquidazione all’acquirente mortis causa, al quale – salvo che venga modificato lo statuto (con quello che potrebbe conseguirne in termini di possibilità di recesso degli altri soci) – non è consentito di essere iscritto nel libro dei soci.

Di conseguenza, in caso di limitazioni che lo statuto dichiari applicabili ai trasferimenti mortis causa:

–  se si tratta di clausola di gradimento, mero o non mero, deve essere previsto che l’acquirente deve ottenere il gradimento dal soggetto deputato ad esprimerlo, ed in mancanza di gradimento, può fruire del correttivo esterno, che deve essere previsto dallo statuto;

–  se si tratta di clausola di prelazione, deve essere previsto che l’acquirente ha l’onere di eseguire la denuntiatio al valore previsto dallo statuto (non inferiore a quello desumibile dall’applicazione dell’art. 2437-ter), in mancanza della quale non ottiene l’iscrizione. Qualora esegua la denuntiatio, in caso di esercizio della prelazione egli sarà liquidato, e in caso di mancato esercizio della prelazione avrà diritto all’iscrizione nel libro dei soci;

–  se si tratta di clausola che prevede requisiti soggettivi, deve essere previsto che l’acquirente che eventualmente non li possieda possa fruire del correttivo esterno;

–  se si tratta di clausola di limite al possesso azionario, deve essere previsto che l’acquirente che eventualmente superi il limite possa fruire del correttivo esterno (per la parte eccedente il limite);

–  se si tratta di divieto di trasferimento puro e semplice, deve essere previsto che l’acquirente possa fruire del correttivo esterno.

(1) La legittimità della clausola che prevede che la società procuri un altro acquirente in luogo di quello sgradito è convincentemente motivata da M. MALTONI, La clausola di mero gradimento «all’italiana», in Riv. not., 2004, p. 1376 ss., ivi p. 1392, il quale ricorda che il collocamento delle azioni presso un terzo può aver luogo anche in caso di recesso (cfr. art. 2437-quater, comma 4), che costituisce uno dei rimedi previsti dal 2355-bis.

(2) La possibilità di un’analogia funzionale fra varie tipologie di clausole è confermata dal terzo comma, nel quale, in un’ipotesi di trasferimento non evitabile né reversibile, il legislatore impone un correttivo esterno (il diritto al disinvestimento) quale che sia la forma con cui i soci hanno inteso “chiudere” la compagine sociale.

(3) In questo senso, peraltro, già l’orientamento n. 32, del Consiglio Notarile di Milano, “Condizioni di efficacia delle clausole di mero gradimento nella s.p.a. (art. 2355 bis c.c.)” del 19 novembre 2004.

(4) Si potrebbe sostenere che, dal punto di vista dell’art. 2355-bis, il gradimento mero senza correttivi non sia un minus rispetto al divieto di alienazione, perché mentre quest’ultimo si impone a tutti, il primo è selettivo e può danneggiare la minoranza. Non sembra tuttavia che il limite di cinque anni alla (totale) compressione della libertà di alienazione imposto dal primo comma della norma in questione riguardi la dialettica maggioranza-minoranza, che è invece retta dai principi in materia di concessione del placet, i quali, a prescindere dall’efficacia temporale della clausola, non tollerano un rifiuto di gradimento abusivo (non facile, ma nemmeno impossibile da dimostrare per la clausola di gradimento mero). L’interesse tutelato dal limite quinquennale non sembra dunque leso dall’introduzione di un gradimento mero anziché di un divieto di alienazione.

(5) Clausole che, pur non essendo discrezionali e non potendo quindi dar luogo ad abusi, prevedano requisiti soggettivi così restrittivi “da compromettere la possibilità, per il singolo socio, di cedere le proprie azioni” sono state considerate equiparabili ad un divieto di alienazione da Cass. 10 dicembre 1996, n. 10970, in Foro it, 1998, I, 212; in Giur. comm., 1998, II, 31. Se dunque esse erano inefficaci secondo il precedente regime, oggi sono efficaci se contenute entro il limite temporale di cinque anni.

(6) Nel senso che la clausola di gradimento possa contemplare l’obbligo (per la società, per gli altri soci, o per un terzo designato dalla società) di acquistare “a parità di condizioni”, cioè al prezzo che l’alienante ha concordato con il terzo non gradito, il già citato orientamento n. 32 del Consiglio Notarile di Milano, “Condizioni di efficacia delle clausole di mero gradimento nella s.p.a. (art. 2355 bis c.c.)” del 19 novembre 2004. È dunque legittimo che la clausola preveda l’acquisto al minore fra il valore che deriva dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 2437-ter e il prezzo che è stato offerto dal terzo.

(7) Secondo il condivisibile insegnamento di Cass. 10 dicembre 1996, n. 10970, citata alla precedente nota 5.

(8) L’art. 2355-bis si riferisce all’erede, ma non vi sono difficoltà ad applicare la norma a tutte le situazioni di acquisto mortis causa, comprensive anche del legato.

(9) Non si pone in questo caso la possibilità, sopra ammessa, di un acquisto ad un prezzo che, ancorché inferiore a quello dell’art. 2437-ter, sia pari a quello offerto dal terzo (ipotesi che può porsi in caso di prelazione e di gradimento), perché non vi è alcuna offerta d’acquisto di un terzo cui parametrare il prezzo di liquidazione.

 

CLAUSOLA COMPROMISSORIA NELLE SOCIETÀ DI PERSONE. 

L’art. 34 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, regola un modello di arbitrato che trova applicazione per tutte le società commerciali, ivi comprese le società di persone.
E’, altresì, da ritenere che la norma prevede un istituto che si aggiunge ma non si sostituisce a quello tradizionale previsto e regolamentato dal codice di procedura civile agli artt. 806 e segg., per cui è lasciato alle società, nell’esplicazione della propria autonomia contrattuale, di scegliere il tipo da adottare nella risoluzione delle controversie sociali.

Pertanto nella redazione delle clausole compromissorie si ritiene opportuno che il notaio, dopo avere indagato le volontà delle parti, faccia riferimento alle norme che sovrintendono alla tipologia di arbitrato scelto dalle parti.

1) La fattispecie ed il quesito.
Il 1° gennaio 2004 è entrata in vigore la riforma del diritto societario con i decreti legislativi nn. 5 e 6 del 17 gennaio 2003. In particolare il decreto legislativo n. 5, che ha disegnato nuove norme per il processo societario, ha introdotto particolari disposizioni in tema di arbitrato, alla luce della previsione contenuta all’art. 12, comma 3, della legge delega 3 ottobre 2001, n. 366, che aveva espressamente previsto “la possibilità che gli statuti delle società commerciali contengano clausole compromissorie, anche in deroga agli artt. 806 e 808 del codice di procedura civile, per tutte o alcune tra le controversie societarie di cui al comma 1”.

In precedenza l’arbitrato societario non conosceva una propria autonoma disciplina. Tuttavia la clausola compromissoria era molto spesso presente all’interno degli statuti societari indipendentemente dal tipo giuridico di società prescelto: con essa era rimessa alla cognizione degli arbitri, rituali o irrituali, la definizione di determinate contese sorte fra le società ed i soci.

Il comma 2 dell’art. 34 ha introdotto una nuova disciplina laddove prevede che la clausola compromissoria statutaria debba prevedere numero e modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri ad un soggetto estraneo alla società. Ove tale soggetto non provveda, la nomina deve essere richiesta al Presidente del Tribunale del luogo in cui vi è la sede legale della società.

E’ stata introdotta, dunque, una modalità di designazione degli arbitri chiamati a dirimere una controversia in materia societaria totalmente innovativa per il nostro sistema, sottraendola alle parti contendenti ed affidandola in via del tutto inderogabile ad un terzo, che assume il ruolo di filtro neutrale tra le parti e gli arbitri. Si è preferito improntare il nuovo sistema al rafforzamento dell’imparzialità e dell’indipendenza degli arbitri sacrificando l’autonomia, il principio della libera partecipazione delle parti alla nomina dei componenti del collegio arbitrale.

La nuova normativa, tuttavia, contrariamente all’ottica di esemplificazione delle controversie commerciali che il legislatore intendeva incentivare e potenziare, ha aumentato i dubbi dello scena

rio interpretativo ponendo una serie di problemi di non facile ed immediata soluzione, sicché appare quanto mai opportuno un intervento integrativo e chiarificatore da parte del legislatore.

Un primo problema concerne l’ambito di applicabilità della disciplina dell’art. 34 del decreto n. 5/2003.

La legge delega delimitava la emananda disciplina in materia di arbitrato agli «statuti delle società commerciali». E’ altresì noto che tutto l’impianto della delega fatta al Governo è stato preordinato esclusivamente al riassetto delle società di capitali.

L’art. 34 ha previsto genericamente l’inserimento di clausole compromissorie negli “atti costitutivi delle società”, fatta eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell’art. 2325 bis c.c., intendendosi, per tali, le società emittenti azioni in mercati regolamentati o diffuse tra il pubblico in maniera rilevante. La ratio di tale esclusione va ravvisata nella tipo- logia dei soci in quel tipo di società: essi sono prevalentemente soggetti risparmiatori o investitori che non hanno interesse ad una partecipazione diretta alla gestione della società, e che, presumibilmente, neppure conoscono l’atto costitutivo o lo statuto. Ammettere la clausola compromissoria anche in questi casi avrebbe significato sottrarre alla giurisdizione ordinaria tutte quelle controversie societarie coinvolgenti la maggior parte dei soci che svolge il semplice ruolo di investitori (1).

Il quesito di fondo, pertanto, resta: la nuova normativa si estende anche alle società di persone?

Un secondo problema riguarda la compatibilità del nuovo arbitrato – che dovendo riguardare i rapporti giuridici interni alle società commerciali è stato definito come “endosocietario” (2) – con quello di diritto comune previsto dagli artt. 806 e segg. cod. proc. civ.. Ovverosia la previsione di questa sorta di arbitrato “rafforzato” (3) è da considerarsi come esclusiva, tale da escludere la possibilità per le società di far ricorso all’arbitrato regolamentato dal codice di rito ovvero è una figura nuova che si affianca a quella tradizionale, lasciando pertanto alla società, nell’esplicazione della propria autonomia contrattuale, di scegliere?

Problema questo di non poca rilevanza per l’influenza che la soluzione avrebbe sulla sorte delle clausole compromissorie contenute in statuti o atti costitutivi risalenti a data anteriore all’entrata in vigore del g. lgs. n. 5/2003. Poiché la grande maggioranza degli statuti societari contenenti una clausola compromissoria prevedevano – e nella maggior parte prevedono tuttora – che ciascuna delle parti avesse la facoltà di nominare un arbitro (c. d. clausola binaria), all’indomani dell’entrata in vigore della riforma in molti si sono interrogati sulla portata del nuovo testo, in particolare sulla sorte delle precedenti clausole statutarie delle società commerciali.

Se si ritiene che il nuovo modello venga ad aggiungersi a quello tradizionale, la clausola compromissoria comune mantiene la propria efficacia. Se si riconosce all’arbitrato societario riformato una funzione sostitutiva del vecchio schema arbitrale, la clausola non può che essere irrimediabilmente nulla.

2) La soluzione

a) Quanto al primo quesito la dottrina prevalente è concorde nel ritenere certamente comprese nella norma sia le società di capitali che le società di persone.

Il riferimento all’atto costitutivo deve essere, poi, inteso in senso ampio, comprensivo, quindi, anche dello statuto sociale e non esclusivamente come “momento costitutivo della società”.

Lo statuto che com’è noto, contiene le norme relative al funzionamento delle società, pur potendo formare oggetto di atto separato, deve infatti essere considerato parte integrante dello stesso atto costitutivo. Ciò si ritiene sufficiente per impedire ogni interpretazione in chiave restrittiva del dettato normativo, dovendosene, al contrario, preferire una lettura ampia (4).

b) Con riferimento al secondo, si ritiene di poter sostenere l’opinione, al momento prevalente, di quella dottrina e della più recente giurisprudenza di merito secondo cui la disciplina dell’arbitrato societario, così come regolamentato dal titolo V del d. legs. n. 5/2003, si affianchi alla disciplina di diritto comune (art. 806 e segg. c.p.c.), non sostituendo quest’ ultima, bensì aggiungendosi ad essa: non vi sarebbe alcuna esclusività del nuovo modello, né sarebbero riscontrabili indici testuali in tal senso.

Da ciò deriverebbe la validità ed efficacia delle clausole compromissorie contenute in statuti o atti costitutivi risalenti a data anteriore all’entrata in vigore del citato decreto legislativo.

3) La motivazione: l’ ambito di applicabilità
Circa l’ambito di applicabilità, l’art. 34 del d. lgs. n. 5/2003 prevede e disciplina la possibilità di inserimento delle clausole arbitrali negli atti costitutivi di tutte le società, senza distinzione di tipo, con l’unica eccezione per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.

A questo si aggiunga che, per espressa previsione normativa contenuta all’art. 1 del decreto in parola, l’ambito di applicazione della nuova disciplina del processo societario, si estende a tutti “i rapporti societari, ivi compresi quelli concernente le società di fatto, l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario, le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i liquidatori e i direttori generali delle società, delle mutue assicuratrici e delle società cooperative”.

Ciò ha fatto ritenere a quella parte della dottrina (5) e della giurisprudenza (6), che hanno affrontato in maniera esplicita il problema, che la nuova disciplina processuale trova applicazione anche alle società di persone e, quindi, le sue disposizioni vanno ad incidere non soltanto sui tipi societari oggetto dell’intervento riformatore nell’ ambito delle società di capitali e cooperative, ma su tutti i tipi previsti dal nostro codice civile.

E non solo: da alcuni si è ritenuto (7) che avendo voluto estendere l’ambito di applicazione della nuova disciplina a tutte le società, il legislatore delegato abbia compreso tra queste anche le società semplici, salvo che si sollevi una questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega. Ma è sicuramente prevalente l’opinione di chi ritiene che la dizione legislativa debba essere intesa in senso restrittivo, limitando l’ applicazione della nuova disciplina arbitrale alle sole società commerciali, alla luce della previsione contenuta all’art. 12, comma 3, della legge delega n. 366 del 2001. (8)

4) Segue: la compatibilità del nuovo arbitrato con quello di diritto comune

La questione si inserisce nel panorama dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi all’ indomani dell’ entrata in vigore della c. d. riforma del diritto e del processo societario all’ interno del quale non sono mancate voci assai discordanti tra loro soprattutto in ragione del fatto che sia le nuove norme sia la relazione illustrativa al d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 non brillano certo per chiarezza.

Un primo orientamento ritiene il nuovo arbitrato societario un modello esclusivo. Se è indiscutibile che in seguito al d. lgs. n. 5/2003 coesistano due discipline dell’arbitrato, quella generale del codice di rito e quella speciale della riforma, è altrettanto vero che però ciò non implica una libertà di scelta circa la disciplina da applicare.

In base a tale orientamento, quindi, l’unico arbitrato “societario” (nei limiti di quanto previsto dall’art. 34 del d.lgs. n. 5/2003) che può essere validamente presente negli statuti delle società costituite precedentemente e successivamente al 1° gennaio 2004 sarebbe quello che prevede la nomina del collegio arbitrale riservata a un soggetto “estraneo” alla società. Di qui la nullità dell’intera clausola compromissoria che non riservasse (com’è invece nella prassi statutaria) la nomina dell’organo giudicante ad un soggetto estraneo alla società (9).

Le ragioni addotte a sostegno della tesi della nullità radicale trarrebbero fondamento in primo luogo dalla lettera dell’art. 34, comma 2°, del d. lgs. n. 5/2003 (10).

In secondo luogo dalla la relazione ministeriale al d. lgs. n. 5/2003 che ha precisato come il testo normativo contribuisca alla “creazione di una nuova species arbitrale che si sviluppa senza pretesa di sostituire il modello codicistico … comprendendo numerose opzioni di rango processuale… che appaiono assolutamente funzionali alla promozione della cultura dell’arbitrato endosocietario”.

Ciò non significa però che si può scegliere, in materia societaria, tra l’una e l’altra species, tra l’uno e l’altro sistema di nomina, bensì che in ogni singolo nuovo arbitrato vi è la compresenza di un doppio strato normativo: un primo generale, costituito dalla disciplina comune codicistica e un secondo speciale che si aggiunge a quello di base e lo completa, integrandolo ed in parte derogandolo (11).

Se le parti lo vogliono, possono scegliere la via della clausola compromissoria e dell’arbitrato anziché la giustizia ordinaria. Ma se così scelgono, devono allora adottare la clausola che prevede la nomina degli arbitri effettuata da un soggetto estraneo alla società.

I sostenitori dell’esclusività dell’arbitrato societario hanno, poi, fatto notare come la nuova normativa si caratterizzi per la sua imperatività. Ed a conferma di ciò si evidenzia come la rubrica dell’art. 35 è intitolata significativamente “disciplina inderogabile del procedimento arbitrale”: ogni arbitrato che scaturisca da una clausola compromissoria inserita in un atto costitutivo (o statuto) societario dovrà applicare solo le disposizioni speciali e, solo se compatibili, anche le disposizioni del codice di rito.

O si ha un arbitrato “speciale” societario, conseguente alla clausola compromissoria delineata dall’art. 34 del decreto o non si può avere arbitrato.

Un secondo orientamento, che propende per la conservazione della volontà delle parti di avvalersi dell’opera di un soggetto diverso dal giudice naturale quale esso sia, sostiene che in presenza di una clausola compromissoria c.d. binaria, ex art. 1419, comma 2° cod. civ, opererebbe una sostituzione automatica del soggetto cui spetta la potestà di nominare tutti gli arbitri in quanto l’art. 34, comma 2°, d. lgs. n. 5/2003 detterebbe una norma di natura processuale e di carattere pubblicistico. In particolare un Autore, (12) superando il dettato dell’art. 34, comma 2°, che prevede l’intervento del Presidente del Tribunale solo nel caso in cui il terzo estraneo non provveda alla nomina degli arbitri, ha suggerito, in presenza di clausole c.d. binarie, di attribuire comunque la nomina dell’intero collegio al Presidente del Tribunale della circoscrizione in cui ha sede la società. In questo modo la sanzione della nullità colpirebbe la clausola compromissoria solo parzialmente, ovverosia nella parte relativa alle modalità di nomina del collegio arbitrale; per il resto l’arbitrato sarebbe interamente sottoposto alle regole del d.lgs. n. 5/2003 e, laddove necessario, del codice di procedura civile (13).

Peraltro, tale proposta interpretativa, caratterizzata dal favor arbitrati, è stata sottoposta a critica da vari Autori (14) anche sulla scorta del recente orientamento della Suprema Corte in tema di inserzione automatica di clausole, (15) secondo il quale l’art. 1419, comma 2°, cod, civ. potrebbe trovare applicazione solo laddove vi sia una espressa indicazione di legge che sancisca la sostituzione della clausola nulla con la norma inderogabile violata.

Un terzo orientamento, sostenuto da gran parte della dottrina e dalla più recente giurisprudenza di merito e a cui si ritiene di poter aderire, propende per la sopravvivenza delle clausole statutarie contenute negli statuti commerciali, che non devolvono a un soggetto estraneo la nomina di tutti gli arbitri. L’art. 34 avrebbe solo regolato un modello di arbitrato che si aggiunge, ma non si sostituisce a quello tradizionale. L’intenzione del legislatore non è stato certo quella di sopprimere la disciplina di diritto comune in ambito societario, quanto quella di creare una forma nuova di arbitrato volta a concorrere con quella tradizionale. Non vi sarebbe alcuna esclusività del nuovo modello, né sarebbero riscontrabili indici testuali in tal senso.

In sostanza dalla riforma societaria è scaturita una species arbitrale, che si affianca al modello codicistico senza sostituirlo. Si sarebbe di fronte a un “doppio binario”: se le parti intendono accedere al nuovo arbitrato societario e alle sue peculiari caratteristiche – e cioè il carattere vincolante erga omnes della clausola, l’ampliamento dell’arbitrabilità, l’efficacia del lodo nei confronti della società, l’ intervento di terzi, gli speciali poteri cautelari degli arbitri – esse dovranno conformare la clausola al nuovo sistema di nomina previsto; se la clausola rimane quella tradizionale, l’arbitrato conseguente sarà un arbitrato di solo diritto comune.

La scelta interpretativa è stata proposta sulla base di una serie di argomentazioni, la prima delle quali fa ricorso al dato letterale della norma e della relazione illustrativa del d. lgs. n. 5/2003. Infatti secondo tali Autori (16) sia quanto previsto nella legge delega(nell’art. 12, comma 2, legge 366/2001 si legge che “il Governo può … prevedere la possibilità che gli statuti delle società commerciali contengano clausole compromissorie …”), sia quanto previsto dall’art. 34 (“gli atti costitutivi delle società … possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie … “), sia, infine, quanto contenuto nella Relazione (“la formulazione del testo contribuisce alla creazione di una compiuta species arbitrale, che si sviluppa senza pretesa di sostituire il modello codicistico”) inducono a ritenere che i due diversi modelli di arbitrato siano destinati a coesistere nel nostro ordinamento a seconda della volontà sociale espressa nella redazione degli atti costitutivi e degli statuti.

Si è fatto notare, in particolare, (17) che nel dettato legislativo non si rinviene alcuna espressione che possa essere intesa come volta a precludere ai soci la possibilità di inserire nello statuto sociale una clausola compromissoria “vecchio stile”; né sembra esserci una logica ragione che giustifichi la volontà del legislatore di abolire la forma di arbitrato societario precedente alla riforma. Piuttosto, la nuova legge offrirebbe ai soci e alla società un istituto arbitrale alternativo, dotato di maggiori vantaggi rispetto a quello di diritto comune.

In altri termini “la situazione soggettiva della società di fronte alla nuova disciplina dell’ arbitrato è tipicamente quella dell’onere: se la società vuole conseguirne le utilità deve espressamente recepire una clausola conforme alla relativa fonte legislativa, altrimenti continua (anche nella semplice inerzia) ad avvalersi della disciplina anteriore subendone però i connessi svantaggi, avvertibili specialmente in termini di numero delle controversie (in)arbitrali” (18).

Ne deriva “una disciplina da definirsi additiva (non sostitutiva) e facoltativa (non obbligatoria) rispetto a quella contenuta nel codice di procedura civile che trova pur sempre applicazione” (19).

Secondo tale orientamento la sanzione della nullità non si applicherebbe a tutte le clausole compromissorie precedenti o successive all’entrata in vigore del d. lgs. n. 5/2003, ma solamente a quelle che, pur volendo introdurre nello statuto la disciplina speciale dell’arbitrato di cui agli artt. 34 ss., prevedano una modalità di nomina degli arbitri diversa da quella indicata dalla norma, individuando un soggetto carente del requisito dell’estraneità.

La scelta del “doppio binario” pare risultare la più convincente anche alla luce di altre considerazioni:

– per ragioni di carattere costituzionale, in quanto aderendo ad orientamento diverso ci si troverebbe di fronte a un regime in cui nelle società sottoposte alle nuove norme sull’arbitrato, il manca- to adeguamento alla nuova disciplina produrrebbe l’invalidità delle clausole compromissorie preesistenti, mentre altrettanto non accadrebbe per le società escluse ai sensi dell’art. 34, cioè società semplici e s.p.a. aperte: tale regime presenterebbe una ingiustificata disparità di trattamento, difficile dal sostenere sul versante dell’interpretazione e foriera di dubbi di legittimità costituzionale (20);

– per ragioni ermeneutiche, sul presupposto della mancanza di una norma di carattere transitoria analoga all’art. 223 bis disp. att. cod. civ. che può essere considerata una prima prova dell’assenza nel legislatore di travolgere le clausole preesistenti, per la mancanza di una norma che preveda l’adeguamento obbligatorio da parte delle società di persone all’art. 34 e per la mancanza di un esplicito divieto di iscrivibilità delle società, i cui statuti contengano clausole difformi da quanto previsto dall’art. 34, nel Registro delle imprese (21).

A tali considerazioni si aggiunga, infine, che nulla impedisce secondo l’orientamento comune che le parti possano sottoscrivere un compromesso per risolvere una controversia tra loro insorta che abbia a oggetto le medesime materie che possono essere devolute al c.d. arbitrato societario (22): sarebbe, pertanto, non aderente a logica ammettere che l’autonomia privata, limitata nel caso di clausole compromissorie contenute negli statuti o atti costitutivi delle società che intendono avvalersi del predetto arbitrato, tornerebbe ad espandersi nuovamente nei limiti degli artt. 806 ss. cod. proc. civ. in caso di compromesso.

In giurisprudenza, dopo un iniziale orientamento propenso a sostenere la nullità o comunque l’inefficacia delle clausole compromissorie difformi dal dettato dell’art. 34, i giudici hanno avuto modo più volte di affermare la sopravvivenza di tali clausole.

Le prime sentenze, (23) con motivazioni per lo più di ugual tenore, hanno sancito che dal 1° gennaio 2004 la clausola statutaria non adeguata, formulata in epoca precedente all’entrata in vigore della riforma e quindi in conformità agli artt. 806 e segg. c.p.c., è nulla perché contraria alle disposizioni inderogabili introdotte in tema di arbitrato societario dal decreto in parola. La ratio, sottesa al prevedere il potere di nomina degli arbitri solo a soggetti estranei alla società, secondo tale giurisprudenza risponde ad una precisa scelta di ordine pubblico, del tutto conforme al dettato costituzionale, ed è di fatto il risultato di una serie di interventi giurisprudenziali e dottrinali che ponevano in dubbio l’efficacia decisionale e l’imparzialità di arbitri interni alla struttura associativa. Proprio in conformità a tali orientamenti il legislatore ha escluso l’utilizzo del cd. arbitrato endo-associativo, prevedendo un’ipotesi di nullità della clausola compromissoria difforme.

In senso diametralmente opposto si è invece espressa la giurisprudenza più recente (24) . I giudici hanno ritenuto “la particolare fondatezza, per l’aderenza al dettato normativo così come davvero voluto dal legislatore della riforma, della configurazione del nuovo modello arbitrale, come anche sostenuto da autorevole dottrina, in concorrenza alternativa con quello tradizionale, … con l’effetto, pertanto, di incrementare le facoltà dei soci e non di limitarle, come invece avverrebbe se, in presenza del decreto processuale, si volesse ora escludere il loro potere di preferire ancora il modello arbitrale tradizionale” (25).

“La scelta poi, operata in sede statutaria, di introdurre per le controversie endosocietarie un arbitrato di diritto comune o di diritto speciale deve desumersi dal tenore della clausola; tale scelta può emergere proprio dal fatto che sia prevista una modalità di nomina degli arbitri diversa da quella prescritta all’art. 34, 2° comma cit., con previsione, dunque, la quale, lungi dall’essere nulla, è sintomatica dell’intendimento negoziale di volersi valere dell’arbitrato codicistico (mentre la sanzione di nullità comminata dall’art. 34 cit. rimane circoscritta al caso in cui da altre disposizioni della clausola statutaria – che prevedano, ad esempio, automatico assoggettamento ad essa di amministratori e sindaci – sia desumibile l’intendimento dei costituenti di valersi delle disposizioni dell’ arbitrato speciale)” (26).

Una posizione intermedia, che per completezza di indagine si ritiene di riportare, è infine quella assunta dal Tribunale di Udine i cui giudici, dopo aver sancito in primis la nullità totale della clausola compromissoria che differisce per modalità di nomina degli arbitri da quella prevista dall’art. 34, facendo propria l’interpretazione del Tribunale di Latina, si sono spinti oltre risolvendo la fondamentale questione della retroattività o meno della nuova disciplina. L’ordinanza infatti afferma che “non incorrono in una nullità sopravvenuta le clausole compromissorie statutarie contenute negli atti costitutivi e negli statuti societari adottati prima dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 5/2003.

La nullità, infatti, rimane un vizio genetico dell’accordo delle parti … e non è comprensibile perché una sopravvenuta previsione di nullità dovrebbero travolgere degli accordi negoziali già perfezionatisi e che hanno validamente prodotto i loro effetti obbligatori” (27).

5) Clausole suggerite

In considerazione dell’orientamento suggerito, al solo scopo di fornire una compiuta documentazione, l’Osservatorio ritiene di poter suggerire i seguenti modelli di clausole compromissorie ove risulta esplicitata la normativa di riferimento:

a) clausola ex articolo 34 d. lgs. n. 5/2003

“In conformità al disposto dell’art. 34 del D. Lgs. n. 5/2003 volendo fruire della particolare disci- plina procedimentale del c.d. “arbitrato endosocietario”, le controversie che potessero insorgere fra la Società ed i soci, gli amministratori ed i liquidatori, nonché fra i singoli soci, in dipendenza del presente atto, ad eccezione di quelle che in genere non possono costituire oggetto di clausola compromissoria, saranno risolte da un Collegio Arbitrale composto di tanti membri quante sono le parti in contesa più uno, e comunque in numero dispari, nominati dal Presidente del Tribunale ove ha sede la Società. Gli arbitri così nominati designeranno il Presidente del collegio arbitrale.

La sede del collegio arbitrale sarà presso il domicilio del Presidente del collegio arbitrale.
Il collegio arbitrale dovrà decidere entro centoventi (120) giorni dalla nomina, “ex bono et aequo” e senza formalità di procedura, salvo quanto disposto dall’art. 36.
Il collegio arbitrale determinerà anche come ripartire le spese dell’arbitrato tra le parti.
Per quanto non previsto, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5. La soppressione ovvero le modifiche della presente clausola compromissoria devono essere approvate con delibera dei soci con la maggioranza di almeno i due terzi del capitale sociale.”

b) clausola di diritto comune ex artt. 806 e segg. c.p.c.
”Le parti espressamente convengono di utilizzare la procedura di arbitrato di diritto comune disciplinata dagli artt. 806 e segg. c.p.c. e pertanto qualunque controversia sorgesse tra i soci o tra di essi e la società in merito all’interpretazione e all’applicazione delle norme del presente atto, sarà devoluta a un Collegio Arbitrale composto di tre arbitri, i primi due nominati uno da ciascuna parte in causa e il terzo dai primi due o, in caso di disaccordo, dal ………………………………………. che provvederà per la parte che non avesse provveduto.
Gli arbitri decideranno secondo equità e con dispensa da ogni formalità di procedura.”

(1) In tal senso N. SOLDATI, “La nuova clausola compromissoria statutaria”, in www.judicium.it; M. GIOR- GETTI – E. BENIGNI “La disciplina inderogabile del nuovo procedimento arbitrale societario. La decisione dell’arbitrato”;

(2) Relazione al D. lgs. N. 5/2003; P. L. NELA, Commento all’art. 34, in Il nuovo processo societario. Commentario, a cura di Chiarloni, Bologna, 2004, 929 ss.;

(3) C. RONCAROLO – P. MARZOLINI “La convenzione arbitrale dopo la riforma del diritto societario. Alcuni spunti pratici” in Federnotizie, 3, 2004, 110 ss.;

(4) Così E. F. RICCI “Il nuovo arbitrato societario”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 517 ss.; C. BRUNELLI “Arbitrato e conciliazione: le novità di interesse notarile nella riforma societaria”, Relazione tenuta al convegno di studi organizzato dall’Associazione Sindacale dei Notai dell’Emilia Romagna, 2004; C. RONCAROLO – P. MARZOLINI, op. cit; A. RUOTOLO “Le clausole arbitrali e l’attività notarile”, in Studi d’impresa, studio 5856/I;

(5) C. BRUNELLI op. cit.; N. SOLDATI op. cit.; G. CABRAS, “Arbitrato e conciliazione nella riforma del di- ritto societario”, Relazione svolta al convegno organizzato dall’Associazione dottori commercialisti per l’attività giudiziaria, in Il dottore commercialista e la riforma del diritto societario, 2003;

(6) Tribunale di Torino 6 ottobre 2006, Sezione Prima civile, in Il Notaro, nn. 9-10-11, 2007;

(7) WEIGMANN, “Problemi di diritto transitorio e le clausole compromissorie “statutarie” nelle società di capi- tali”, in Conciliazione e arbitrato nelle controversie societarie, Roma, 2003, 111 ss., ipotizza perciò un eccesso di dele- ga;

(8) V. RUFFINI, “La riforma dell’arbitrato societario”, in Corriere giurid., 2003, 1524 ss.;

(9) N. SOLDATI “Nullità della clausola compromissoria in seguito a mancato adeguamento”, in Diritto e prati- ca delle società, n. 2/2005, pag. 73; CONSIGLIO NOTARILE DI MILANO, Massima n. 3 – 21 gennaio 2004; C. BRUNELLI, op. cit., non affronta direttamente il problema ma scrive che il potere di nomina di tutti gli arbitri ad un estraneo “è il nuovo requisito del d. lgs. n. 5/2003, in direzione contraria rispetto alla prassi precedentemente consolida- ta .. E’ proprio questo il nuovo requisito che incide in modo devastante su tutti gli statuti redatti conformemente alla prassi precedente, comportando la nullità della clausola compromissoria e la necessità di adeguamento della stessa”; M. GIORGETTI – E. BENIGNI, op. cit., indirettamente affermano che “Ne consegue, a contrario, che all’arbitrato, che si fonda su una clausola compromissoria statutaria, non si applicano le norme di diritto comune, quando esse siano contrastanti con le norme speciali contenute nel titolo V”; in tal senso sembra anche E. F. RICCI, op. cit., pagg. 525-526 il quale afferma che “Poiché si è in presenza di una particolare forma di giustizia del gruppo organizzato, la garanzia dell’indipendenza dell’arbitro richiede che lo stesso sia scelto da soggetto estraneo all’organizzazione societaria. Si par- te qui dall’idea che la controversia, pur svolgendosi tra soggetti ben determinati, possa in realtà coinvolgere direttamente o indirettamente l’interesse di tutti i membri del gruppo ed il gruppo stesso come ente; e proprio per questo si diffida delle designazioni in qualche modo legate alla scelta compiuta da membri del gruppo o da suoi organi. … Affidare la nomina degli arbitri ad un terzo era dunque la soluzione più consigliabile sotto tutti i profili”; P. L. NELA, op. cit. sulla base della ratio della norma volta comunque a sottrarre la nomina dell’arbitro alle parti;

(10) in questo senso, tra i primi, si è espresso F. CORSINI “L’arbitrato nella riforma del diritto societario”, in Giur. it., 2003, 1286; IDEM “La nullità della clausola compromissoria statutaria e l’esclusività del nuovo arbitrato societario”, in Giur. comm, 2005, I, 809 ss.; sempre sulla base del dato letterale della norma E. ZUCCONI GALLI FON- SECA “La convenzione arbitrale nelle società dopo la riforma”, in Riv. trim. dir. e proc. civ.”, 2003, 955 ss.; IDEM “L’arbitrato societario nell’applicazione della giurisprudenza”, in Giur. comm., 2007, II, 935; N. SOLDATI “Le clau- sole compromissorie nelle società commerciali”, Milano 2005, 30 (sulla base del dato letterale della norma, che in caso di nullità della clausola lascerebbe alle parti la sola possibilità di adire il giudice ordinario mediante il rito societario);

(11) così R. SALI “L’arbitrato per le nuove società. Dodici (piccoli) nodi applicativi e qualche proposta”, in Giur. it. , 2005, 442 ss.;

(12) F. P. LUISO “Appunti sull’arbitrato societario”, in Riv. dir. proc., 2003, 707 ss.;

(13) In tal senso DALMOTTO Commento all’art. 41, in Il nuovo processo societario. Commentario, a cura di Chiarloni, Bologna, 2004, 1097; L. BOGGIO “Le clausole compromissorie statutarie alla luce dell’art. 34, comma 2, d. lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003”, in Riv. arb., 2004, 210;

(14) E. ZUCCONI GALLI FONSECA op. cit., 957; F. CORSINI “La nullità della clausola compromissoria statutaria e l’esclusività del nuovo arbitrato societario”, in Giur. comm., I, 809 ss.; F. AULETTA “La nullità della clausola compromissoria a norma dell’art. 34 d. lgs. 17.1.2003, n. 5: a proposito di recenti (dis-)orientamenti del notariato”, in Riv. arb., 2004;

(15) Cass. 28 giugno 2000, n. 8794, in Contratti, 2001, 236;

(16) V. SALAFIA “Il nuovo arbitrato societario e altre questioni.” Commento a tribunale di Latina 22 giugno 2004, in Società, 2005, 97 ss.; IDEM “Alcune questioni interpretative del nuovo rito societario”, in Società, 2004, 1457 ss.; F. AULETTA, op. cit., 361 ss.; IDEM “D. lgs. 17.1.2003, n. 5 – L’Arbitrato (artt. 34-36)”, in Nuovo diritto societario, De Tilla-Alpa-Patti (a cura di), 2003, 855 ss.; P. L. NELA op. cit.; IDEM “Cenni sull’ambito di applicazione del nuovo arbitrato endosocietario”, in Giur. it., 2005, 117 ss.; G. DE NOVA “Controversie societarie: arbitrato societario o arbitrato di diritto comune?”, in Contratti, 2004, 847; F. AULETTA – ZOPPINI “Doppia chance di arbitrato per le società”, in Il Sole 24 ore, 2/9/2004, 19; ARIETA-DE SANTIS “Diritto processuale societario”, Padova, 2004, 606; RECCHIONI “L’arbitrato in materia societaria fra clausola compromissoria preesistente e ius superveniens” in Riv. arb., 2004, 771 ss.; ZOPPINI “I diritti disponibili relativi al rapporto sociale nel nuovo arbitrato societario”, in Riv. soc., 2004, 1173; S. A. CERRATO “Arbitrato societario e arbitrato di diritto comune: una convivenza ancora difficile”, in Giur. comm., 2006, II, 497 ss.; A. DE PRA “Arbitrato societario e clausola compromissoria preesistente: si procede sul “doppio binario”, in Riv. soc., 3/2007, 97 ss.; A. STESURI “Gli arbitrati societari”, Giappichelli, 2005, 144;

(17) V. SALAFIA , op. cit.;

(18) F. AULETTA, op. cit.;

(19) A. STESURI, op. cit.;

(20) Così P. L. NELA, Commento all’art. 34, cit.;

(21) Così A. CERRATO, op. cit.;

(22) Tra gli altri, E. F. RICCI, op. cit.; R. SALI, op. cit.; E. ZUCCONI GALLI FONSECA op. cit.;

(23) Tribunale Latina, 22 giugno 2004, in Diritto e pratica delle società, n. 2/2005, pag 73; Tribunale Trento, 8 aprile 2004, in Le Società, 2004, pag. 999; Tribunale Torino, cit.; Tribunale Tortona, 3 agosto 2004 (ord.); Tribunale Catania, 26 novembre 2004; Tribunale Milano, 4 maggio 2005; Idem, 25 giugno 2005; Idem, 21 ottobre 2005; Idem, 22 settembre 2006;

(24) Tribunale Bari, 2 novembre 2006; Tribunale Bologna, 9 febbraio 2006; Idem, 13 novembre 2006 (decr.); Appello Torino, 8 marzo 2007; Idem, 20 marzo 2007, I sezione civile, in Il Notaro, nn. 9-10-11, 2007; Idem, 29 marzo 2007; Idem, 4 aprile 2007; Idem, 7 giugno 2007; Idem, 22 giugno 2007; Idem, 27 giugno 2007; Idem 30 ottobre 2007; Idem, 15 novembre 2007; Idem, 16 novembre 2007;

(25) così Appello Torino, 20 marzo 2007, cit.;

(26) così Appello Torino, 8 marzo 2007, cit.;

(27) Tribunale Udine, 4 novembre 2004;

CLAUSOLA COMPROMISSORIA SOCIETARIA art. 34 del D.LGS. n. 5/2003 Aggiornamento su giurisprudenza e dottrina

Cass. civ. Sez. III, 9 dicembre 2010, n. 24867

Una clausola compromissoria inserita negli atti societari, difforme da quella prevista dall’art. 34, D.Lgs. n. 5 del 2003, nella parte in cui preveda il deferimento delle eventuali controversie al giudizio di arbitri nominati anche dalle parti, deve ritenersi nulla. In ipotesi siffatte incorre in sanzioni disciplinari il notaio che abbia provveduto ad inserire nei summenzionati atti una clausola avente il precisato contenuto, laddove ai suddetti fini disciplinari è del tutto irrilevante la circostanza che la clausola compromissoria, nulla per contrasto con norma imperativa, possa essere eventualmente sostituita di diritto dalla norma stessa, ai sensi dell’art. 1419 c.c., in quanto rimedio previsto dal legislatore unicamente per garantire la conservazione dell’atto ai fini privatistici. Pur non conducendo un tale vizio alla nullità dell’intero negozio, trattasi in ogni caso di nullità parziale assoluta.

In precedenza si registravano le seguenti posizioni:

1) NULLITA’ ASSOLUTA DELLA CLAUSOLA PER VIOLAZIONE DELL’ART. 34, 2 COMMA, DEL D.LGS. N. 5/2003 E CONSEGUENTE VIOLAZIONE DELL’ART. 28, 1 COMMA, N. 1, DELLA L.N..

Modello di arbitrato speciale, esclusivo e sostitutivo; il potere di nomina di tutti gli arbitri deve essere conferito, a pena di nullità, ad un soggetto estraneo alla compagine sociale.

NULLITA’ PARZIALE:

1A) POSSIBILITA’ DI APPLICARE L’ART. 1419, 2 COMMA, DEL C.C.. 1B) IMPOSSIBILITA’ DI APPLICARE L’ART. 1419, 2 COMMA, DEL C.C..

Trib. Trento 11 febbraio 2004

Trib. Trento 8 aprile 2004

Trib. Latina 22 giugno 2004

Trib. Tortona 3 agosto 2004

Trib. Palmi 11 ottobre 2004

Trib. Udine 4 novembre 2004

Trib. Catania 26 novembre 2004

Trib. Bari 24 gennaio 2005

Trib. Milano 4 maggio 2005

Trib. Milano 25 giugno 2005

Trib. Milano 21 ottobre 2005

Trib. Milano 9 novembre 2005

Trib. Pesaro 24 febbraio 2006

App. Torino 4 agosto 2006

Trib. Milano 22 settembre 2006

Trib. Torino 6 ottobre 2006

Trib. Salerno 12 aprile 2007

Co.Re.Di. Emilia Romagna 11 dicembre 2007

Trib. Parma 11 aprile 2008

Trib. Torino 29 aprile 2008

Trib. Milano 30 aprile 2008

App. Milano 13 giugno 2008

Co.Re.Di. Emilia Romagna 1 luglio 2008

App. Bologna 6 ottobre 2008

Trib. Trani 15 ottobre 2008

Co.Re.Di. Calabria 22 ottobre 2008

Co.Re.Di. Calabria 16 dicembre 2008

Co.Re.Di. Calabria 13 febbraio 2009

Co.Re.Di. Calabria 24 febbraio 2009

Co.Re.Di. Sicilia 24 febbraio 2009

Co.Re.Di. Emilia Romagna 3 marzo 2009

App. Bologna 6 marzo 2009

Co.Re.Di. Calabria 5 maggio 2009

Trib. Milano 18 giugno 2009

App. Catanzaro 23 giugno 2009

Co.Re.Di. Calabria 16 giugno 2009

Co.Re.Di. Emilia Romagna 6 ottobre 2009

Co.Re.Di. Sicilia 19 ottobre 2009

App. Palermo 21 dicembre 2009

App. Bologna 4 gennaio 2010

Co.Re.Di. Calabria 13 gennaio 2010

Co.Re.Di. Emilia Romagna 2 marzo 2010

App. Bologna 15 marzo 2010

App. Venezia 18 marzo 2010

Cassazione III sez. 9 dicembre 2010 n. 24867

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2) VALIDITA’ DELLA CLAUSOLA.

Modello di arbitrato compatibile, alternativo e concorrente con il modello generale previsto dal codice di rito, che si aggiunge ad esso, senza sostituirlo (teoria del doppio binario).

Trib. Torino 27 settembre 2004

Trib. Udine 22 novembre 2004

Trib. Genova 7 marzo 2005

Trib. Bologna 25 maggio 2005

Trib. Bologna 9 febbraio 2006

Trib. Ravenna 13 febbraio 2006

Trib. Salerno 10 ottobre 2006

Trib. Bari 2 novembre 2006

Trib. Bologna 13 novembre 2006

App. Torino 8 marzo 2007

App. Torino 20 marzo 2007

Trib. Bologna 25 marzo 2007

App. Torino 29 marzo 2007

App. Torino 4 aprile 2007

Trib. Bologna 25 maggio 2007

App. Torino 7 giugno 2007

App. Torino 22 giugno 2007

App. Torino 27 giugno 2007

Trib. Genova 23 aprile 2007

App. Torino 4 settembre 2007

App. Torino 30 ottobre 2007

App. Torino 15 novembre 2007

App. Torino 16 novembre 2007

Co.Re.Di. Trentino-A.A., Friuli Venezia Giulia e Veneto 10 marzo 2008 Trib. Bologna 17 giugno 2008

Co.Re.Di. Trentino-A.A., Friuli Venezia Giulia e Veneto 19 gennaio 2009 Co.Re.Di. Campania e Basilicata 23 gennaio 2009

App. Palermo 16 marzo 2009

Co.Re.Di. Campania e Basilicata 20 marzo 2009

Co.Re.Di. Campania e Basilicata 6 maggio 2009 Trib. Prato 15 giugno 2010

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STESURI, “Gli arbitrati societari”, 2005

ZOPPINI, “I diritti disponibili relativi al rapporto sociale nel nuovo arbitrato societario”, in Riv. soc., 2004

 

AUMENTO DI CAPITALE MEDIANTE COMPENSAZIONE E CREDITI POSTERGATI NELLA SRL.

E’ sempre possibile liberare l’aumento di capitale sottoscritto mediante compensazione con un credito del socio da finanziamento, anche nel caso in cui il termine per il rimborso non sia ancora scaduto.

Non osta a tale operazione neppure il fatto che ricorrano le condizioni per la postergazione dei crediti dei soci stabilite dall’articolo 2467 codice civile, posto che la conversione del credito da finanziamento in capitale di rischio concorre alla protezione degli interessi dei creditori terzi tutelati da tale disposizione.

L’assemblea non deve obbligatoriamente deliberare sulla compensabilità del debito da sottoscrizione, se non per escluderla richiedendo la liberazione dell’aumento mediante versamento in denaro. 

1) E’ pratica frequente che nelle società a responsabilità limitata i soci contribuiscano in maniera significativa al finanziamento dell’impresa, fornendo le risorse finanziarie necessarie per lo svolgimento dell’attività.

Altrettanto frequente è la richiesta, in sede di operazioni sul capitale, di poter utilizzare tali finanziamenti al fine di sottoscrivere e liberare il deliberando aumento di capitale.

Una parte della giurisprudenza e risalente dottrina (1) ritiene che non sia possibile liberare l’aumento sottoscritto mediante compensazione con un credito del socio sottoscrittore, ma in realtà non ostano ragioni di fatto o di diritto all’ammissibilità di tale operazione, in quanto la compensazione, benché mezzo di estinzione diverso dall’adempimento, è di fatto satisfattoria dell’interesse del creditore ed ha effetti liberatori per entrambi i soggetti interessati.

Deve evidenziarsi, inoltre, che, da un lato, non esiste una norma che limiti i mezzi con i quali può essere effettuato il versamento della quota capitale sottoscritta e, che, dall’altro, manca qualsiasi pregiudizio per i terzi dato che il mancato versamento materiale viene bilanciato dall’eliminazione di un debito della società. (2)

La stessa giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che il credito del socio di una società di capitali nei confronti della società è compensabile con il debito relativo alla sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale, non essendo ravvisabile un divieto implicito, desumibile da principi inderogabili del diritto societario, che impedisca in tal caso l’operatività della compensazione. (3)

Per la Suprema Corte, mentre la compensazione tra debito di conferimento e credito verso la società non può avvenire in relazione al capitale originario, l’aumento di capitale sottoscritto attraverso l’estinzione per compensazione di un debito del socio non è contrario all’interesse della società o dei terzi, comportando, in concreto, un aumento della garanzia patrimoniale generica offerta dalla società ai creditori, in quanto dalla trasformazione del credito (certo, liquido ed esigibile) del socio in capitale di rischio deriva che detta garanzia non copre più il credito del socio stesso.

2) E’ nota la distinzione tra i finanziamenti destinati alla restituzione ed i versamenti a fondo perduto od in conto future operazioni sul capitale (4) e diamo quindi per presupposto che nel caso de quo il versamento da utilizzare in compensazione sia qualificabile come finanziamento in senso proprio e quindi correttamente contabilizzato e da indicare in bilancio tra le voci del passivo.

Il legislatore ha riconosciuto espressamente l’aspetto contabile dei finanziamenti dei soci prevedendone l’inserimento alla voce del Passivo (art.2424 let. D) n.3), ma ha anche manifestato una certa “insofferenza” verso l’uso eccessivo del credito sociale, ritenendo che i finanziamenti effettuati dai soci dovrebbero essere sostituiti dai conferimenti (5), come verrà in seguito esplicato.

Analoga posizione ha assunto il legislatore tributario adottando misure di contrasto all’utilizzo fiscale della sottocapitalizzazione a favore del finanziamento soci. (6)

Tornando all’ipotesi prospettata, deve ritenersi pacificamente ammissibile l’operazione in oggetto in presenza di una compensazione legale, laddove il finanziamento da utilizzare sia ormai scaduto e sia quindi sorto un diritto del socio alla sua restituzione.

Nessun pregiudizio per i creditori sociali è infatti ravvisabile in un aumento di capitale sottoscritto mediante la contestuale estinzione per compensazione di un credito scaduto del socio sottoscrittore, mentre, sul piano economico – patrimoniale, nessun vantaggio deriverebbe ai creditori stessi dall’imporre alla società l’obbligo di pagare il proprio debito nei confronti del socio sottoscrittore e di incassare, contestualmente, la stessa somma da lui dovuta (7).

Non sono infatti soggetti alla disciplina del 2467 codice civile, che vedremo subito dopo, sia i prestiti “normali”, ossia quelli effettuati non in situazioni di crisi – come richiesto dalla norma (art. 2467 , 2° comma c.c.) – ma nella normale fase di vita della società (8), sia gli «apporti spontanei» (9) in quanto non possono ricondursi a quella nozione di «finanziamenti» di cui all’articolo in commento comprensiva, infatti, solo dei finanziamenti con obbligo di rimborso. (10)

3) Tale principio, ossia la compensazione legale tra credito da finanziamento e debito da sottoscrizione, merita una più attenta riflessione nell’ipotesi in cui ricorrano le condizioni per la postergazione del credito da compensare.

Il quesito è se possa essere di ostacolo all’operazione in oggetto il fatto che il rimborso dei finanziamenti dei soci possa essere postergato, ex art. 2467 codice civile, rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, dato che in tal caso non potremo più parlare di compensazione legale a causa della inesigibilità, temporanea, del credito da parte del socio.

La norma in oggetto non si applica a tutti i finanziamenti effettuati dai soci, ma solo ai finanziamenti concessi quando la generale situazione patrimoniale e finanziaria della società presentava un significativo rischio di insolvenza ed infatti dipende dalla contemporanea presenza dei seguenti presupposti (11) che dovranno ricorrere nel momento in cui viene effettuata l’erogazione:

– che vi sia stato un finanziamento da parte del socio che non si sostanzi in una operazioni sul capitale (12);

– che il finanziamento sia stato effettuato quando “risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto” o quando esiste “una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”.

Tale norma si ispira ad una valutazione negativa, da parte del legislatore, del ricorso sconsiderato al finanziamento dei soci in luogo del conferimento a capitale o patrimonio (13), con lo scopo di impedire una possibile lesione della posizione degli altri creditori sociali che potrebbero essere danneggiati dalla posizione di socio ricoperta dal finanziatore (14).

E’ in queste situazioni che possono aversi i maggiori rischi di comportamenti opportunistici da parte dei soci a danno dei creditori, posto che i soci che finanziano propria società godono di migliori informazioni e sono portatori di un interesse non coincidente con quello dei creditori. (15)

I soci, infatti, potrebbero utilizzare la propria posizione “interna” per avere in anticipo informazioni su possibili difficoltà economiche ed ottenere il rimborso del proprio finanziamento prima che lo stato di insolvenza si manifesti ufficialmente.

Finanziando la società, i soci mirano anche a proteggere il loro diritto a percepire futuri utili o plusvalenze, ma nello stesso tempo costituendosi il diritto a partecipare alla ripartizione del patrimonio, come gli altri creditori, nel caso di insolvenza della società (16).

Il rimedio della postergazione (e della revocabilità del rimborso eseguito nell’imminenza dell’insolvenza) appare infatti strumentale alla conservazione del patrimonio responsabile quale mezzo di garanzia indiretta dei creditori e di mantenimento del rischio d’impresa in via prioritaria in capo a chi, partecipando al capitale, partecipi dei benefici dell’impresa in regime di limitazione della responsabilità (17).

4) Ciò posto, appare evidente come l’aumento mediante compensazione, anche in presenza di una possibile postergazione, non possa ritenersi in contrasto con lo spirito della norma, ma al contrario ne sia naturale conseguenza.

L’estinzione per compensazione non pregiudica i creditori della società in quanto, anche se non determina l’ingresso di una attività reale, elimina una passività sicuramente reale e questo risultato realizza ugualmente la copertura richiesta dalla legge grazie al principio secondo il quale la diminuzione del passivo è un incremento patrimoniale come l’aumento dell’attivo (18).

Al contrario, l’operazione appare tutelare proprio la posizione dei creditori della società in quanto l’effetto della compensazione è quello di rendere definitivamente inesigibile (dato che il rimborso del capitale è l’ultima delle fasi della liquidazione) quel credito che invece lo sarebbe solo transitoriamente per l’operare della postergazione.

Il 2467, infatti, fa sì che il finanziamento del socio, in presenza di quel disequilibrio della struttura finanziaria che avrebbe richiesto “ragionevolmente” un conferimento, venga assimilato al regime cui sarebbe stato soggetto qualora l’apporto fosse stato eseguito a titolo di conferimento, considerato che, nella crisi della società, un credito postergato finisce in pratica per essere rimborsato solo all’esito del pagamento degli altri crediti e della ripartizione dell’eventuale residuo attivo.

La postergazione, tuttavia, non opera una riqualificazione del rapporto tra socio e società relativamente ai finanziamenti erogati che tali rimangono, non trovando applicazione la disciplina del capitale nominale (non si imputano a capitale, la loro restituzione non passa attraverso una riduzione reale del capitale), ma si limita a dispiegare i suoi effetti sul piano dei rapporti con gli altri creditori (19).

I finanziamenti rimangono soggetti alla disciplina loro propria, ma vengono retrocessi rispetto agli altri rapporti di credito; non viene introdotto un generico divieto di rimborso dei finanziamenti e loro esigibilità viene subordinata, non alla preventiva soddisfazione degli altri creditori, né al venir meno di un eccessivo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto, ma alla verifica da parte degli amministratori dell’irrilevanza di tale rimborso rispetto alla capacità della società di far fronte alle proprie obbligazioni (20). Solo se il rimborso del finanziamento del socio può mettere a repentaglio la possibilità di soddisfare gli altri creditori, l’amministratore dovrà astenersi dal procedere al pagamento nonostante la scadenza del termine pattuito (21).

Ogni operazione che comporti la “conversione” di un finanziamento in investimento partecipativo del rischio d’impresa, pertanto, deve ritenersi in sintonia con lo spirito della stessa norma sulla postergazione quale espressione di un divieto di rimborso finché la società è a rischio insolvenza, per cui non possono esservi ostacoli ad una compensazione quanto meno volontaria (22).

La postergazione legale del credito del socio determina, infatti, l’inefficacia dell’eventuale termine per il rimborso stabilito tra socio e società nell’accordo di finanziamento: il mancato rimborso alla scadenza non comporterà la mora del debitore ex art. 1218 c.c., dal momento che il ritardo nell’adempimento discende da un obbligo di legge, ma non potrà neppure consentire una compensazione legale, dato che il termine per il rimborso non può intendersi scaduto.

Del resto, quando il legislatore ha voluto vietare la compensazione nel campo societario, lo ha fatto espressamente (v. art. 2271 codice civile) (23).

A fronte di “finanziamenti” in senso proprio, ossia connotati dall’obbligo restitutorio, non può poi parlarsi di aumento di capitale gratuito, perché tali apporti rappresentano dei debiti della società e non certo delle riserve o comunque dei fondi disponibili allo scopo di consentire l’aumento del capitale.

Da sottolineare, inoltre, che il capitale sottoscritto non viene liberato mediante il conferimento di un credito, per cui non si applica la disciplina prevista dall’art. 2464 codice civile per il conferimento di beni in natura e di crediti (24), in quanto un conto è il conferimento da parte del socio del credito vantato nei confronti di terzi – la cui figura giuridica deve rinvenirsi in quella della cessione del credito – altro è l’ipotesi in cui il credito del socio sia vantato nei confronti della società stessa.

In altre parole, la compensazione non è una vicenda “traslativa” del credito dal socio alla società, ma una vicenda “estintiva” del credito stesso.

Il credito del socio non rileva come bene economico – come tale suscettibile di valutazione – ma solo per la sua entità numeraria (25) in quanto la compensazione in parola attiene ad un conferimento in denaro, e non in natura, che viene eseguito proprio mediante tale modalità di estinzione dell’obbligazione (26).

Nè varrebbe obiettare che l’art. 2423-ter c.6, codice civile, esprime il divieto di compensazione di partite, perché tale disposizione, peraltro diretta agli amministratori, detta una regola di corretta contabilità che impone di trasferire nel bilancio, con chiarezza e precisione, la rappresentazione delle voci che possono determinare situazioni attive o passive, ma non interferisce con la regola civilistica sulla compensazione (27).

5) E’ tuttavia vero che il meccanismo della compensazione potrebbe prestarsi ad operazioni di elusione della normativa che disciplina i conferimenti in natura. Si pensi all’ipotesi in cui il socio e l’amministratore si accordino affinché il primo venda un bene alla società, che non ne paga il prezzo, per poi consentire la compensazione del credito con il debito derivante dalla sottoscrizione dell’aumento di capitale (28).

Al fine di fugare dubbi sulla legittimità dell’operazione, può essere pertanto opportuno evidenziare nella delibera le ragioni dell’aumento (29) in modo da escludere profili di responsabilità degli amministratori che abbiano effettuato una compensazione volontaria laddove l’interesse della società fosse stato invece quello di ottenere nuove risorse finanziarie e non tanto di sola patrimonializzazione.

La decisione di accettare la compensazione come modalità di liberazione del capitale sottoscritto è atto gestionale e quindi riservato agli amministratori. Grava su di loro l’onere di valutare se il deliberando aumento richieda necessariamente l’apporto di capitali freschi oppure no e quindi su di loro ricadranno le eventuali responsabilità connesse a tale scelta.

Come qualsiasi atto di gestione, quindi, la compensazione non dovrà essere autorizzata dall’assemblea, ma, eventualmente, espressamente esclusa qualora gli interessi della società e le ragioni del deliberato aumento impongano che l’esecuzione avvenga esclusivamente mediante effettivi versamenti.

In tal caso l’esclusione dovrà passare attraverso una previsione espressa da parte dell’assemblea dell’obbligo di liberare esclusivamente in denaro il deliberando aumento posto che, quantomeno qualora ci si trovi di fronte ad una ipotesi di compensazione legale, l’operare della compensazione sarebbe automatico; adottando una simile delibera, invece, il socio che decida di sottoscrivere l’aumento ne accetterà anche le modalità di liberazione “rinunciando” quindi ad avvalersi della compensazione (30).

Altro argomento a sostegno dell’utilità di una delibera che preveda espressamente la compensabilità dell’aumento, può ritrovarsi nell’opportunità di dare atto di una compensazione che, potendo non essere legale in presenza di finanziamenti non scaduti, potrà comunque essere volontaria.

Tale modalità di liberazione dell’aumento richiede infatti necessariamente il consenso del socio che ha effettuato il finanziamento, considerato che lo stesso non è acquisito al patrimonio della società dovendo essere restituito al socio (31). Tale consenso potrà quindi essere prestato in occasione della delibera di approvazione dell’aumento, così come essere acquisito successivamente.

6) Di contro, dobbiamo tenere presente che l’espressa indicazione dei crediti da compensare contenuta nel verbale dell’assemblea, può determinare il corollario, assai probabile a seguito della sentenza della Cassazione n. 15585 del 30 giugno 2010 (32), di una tassazione degli enunciati finanziamenti.

La pronuncia in oggetto ritiene infatti che la rinuncia alla restituzione dell’apporto del socio, non formalizzato in un precedente atto scritto, comporti l’enunciazione di una disposizione soggetta a registrazione ai sensi dell’articolo 22 del D.P.R. N. 131/86. In altre parole l’enunciazione del finanziamento costituirebbe una sorta di “riproduzione” per iscritto del contratto verbale determinando quindi l’applicazione della medesima disciplina fiscale che sarebbe stata applicabile se quel contratto fosse stato stipulato per iscritto ab origine (33).

E’ probabile, pertanto, che le possibili conseguenze fiscali portino all’adozione di soluzioni pratiche che, lungi dall’essere le migliori dal punto di vista civilistico e di trasparenza, creino una “cortina fumogena” protettiva sull’operazione realizzata (34).

 

(1) App. Napoli 7 marzo 1953, Trib. Napoli 9 luglio 1962, Trib. Treviso 4 marzo 1983; Cass. n.13095, 10 dicembre 1992; App. Venezia 30 marzo 1994 e 17 giugno 1994; Trib. Casale Monferrato 20 febbraio 1995. Simonetto “prestazione del socio e compensazione”, Riv. Dit. Comm. 1955; Foschini “La Compensazione nel fallimento”, Napoli 1965

Per una analisi critica delle ragioni contrarie all’ammissibilità della compensazione v.: A. Dentamaro, “Aumento di capitale e compensazione”, Riv. soc. 1997, p. 1027; C.A. Busi “Spa – Srl Operazioni sul capitale”, 2004, p. 207 e ss.

(2) C.A. Busi “Spa – Srl Operazioni sul capitale”, 2004, p.211; Trib. Genova 7 luglio 1953.

(3) Cass. n. 936 del 5 febbraio 1996; Trib. Milano 9 febbraio 1995; Trib. Piacenza 1 giugno 1995; Trib. Napoli 1 ottobre 1998; App. Potenza 29 gennaio 1999; App. Napoli 13 maggio 2002; App. Roma 3 settembre 2002; In senso favorevole alla compensazione è la prevalente dottrina; cfr., tra gli altri, F. Montanari, “L’aumento di capitale mediante compensazione”, Riv. Soc. 1967, p. 999 ss.; V. Salafia, “Aumento del capitale e conferimento di crediti”, Le Società 1988, p. 225 ss.; M.S. Spolidoro, “Commento al d.p.r. 10 febbraio 1986 n.30”, Nuove leggi civ. Comm., 1988, p. 178; M. Maltoni, “Compensazione del credito del socio verso la società con il debito sorto a suo carico a seguito della sottoscrizione dell’aumento di capitale”, Giur. Comm., 1994, p. 205 ss.; F. Di Sabato, “Sulla estinzione per compensazione del debito di conferimento”, Contr. Impre., 1995, p. 656; A. Bortoluzzi, “Delibera di aumento di capitale per compensazione o eseguita in compensazione?”, Riv. Not., 2002, p. 663 ss.; M. S. Spolidoro, “I conferimenti in danaro”, in Trattato delle società per azioni, vol. 1, 2004, p. 423 ss.

(4) L’elemento distintivo tra “versamenti” e “finanziamenti” può sicuramente ritrovarsi nella presenza o meno dell’obbligo restitutorio, ma anche nelle finalità pratiche a cui è diretto l’apporto e nell’eventuale previsione della corresponsione di interessi. Le somme versate dai soci e qualificabili come finanziamento, sono infatti somme versate a titolo di mutuo con diritto alla loro restituzione anche durante la vita della società, in quanto tale restituzione è funzionale alla causa del contratto. Cfr. il § b) 1 del Principio contabile n. 28 ove si chiarisce che i “Versamenti a titolo di finanziamento” sono quelli per i quali la società ha l’obbligo di restituzione.

Sulla differenza tra “capitale di rischio” e “capitale di credito” vedi, per tutti, M. Campobasso, I finanziamenti dei soci, Torino, 2004, 119 s.
La distinzione deve essere risolta in primis sulla base della volontà manifestata dalle parti ed in mancanza di questa in base alla terminologia adottata dal bilancio approvato anche con il voto del socio che ha versato le somme (v. Cass. N. 12539, 14/12/98, in “Notariato” 1999, p.538 e ss.; Cass., 31 marzo 2006, n. 7692, in Giur. it., 2006, 11, p. 2080; si veda anche C.A. Busi, “S.p.a.-s.r.l. Operazioni sul capitale”, p. 88; M. Rubino De Ritis, “I versamenti non titolati dei soci”, Giur. Merito 2010, p.1021 e ss.)

(5) G.A.M. Trimarchi “L’aumento del capitale sociale”, Notariato e nuovo diritto societario, IPSOA, p.70 e ss.

(6) V. in passato l’art. 98 del TUIR (successivamente abrogato dall’art.1 c.33, let. l) della L. 244/2007) ed oggi l’art. 96 del TUIR.

(7) App. Roma 3 settembre 2002.
In senso contrario Trib. Napoli 8 novembre 2006, per il quale la compensazione coinvolgerebbe direttamente gli interessi dei terzi creditori, il cui soddisfacimento è prioritario rispetto ai soci.

Si ricorda poi che la postergazione di cui all’art. 2467 codice civile, non può colpire il rapporto società-socio in caso di deterioramento delle condizioni finanziarie della società sopravvenuto rispetto al finanziamento, dato che individua nell’atto di sua erogazione il momento di qualificazione del finanziamento postergato.

(8) U. Tombari, “«Apporti spontanei» e «prestiti dei soci» nelle società di capitali”, p. 567; E. Fazzutti, Commento sub art. 2467 c.c., in “La riforma delle società”, a cura di M. Sandulli – V. Santoro, p. 49; D. Scano, “I finanziamenti dei soci nella s.r.l. e l’art. 2467 codice civile”, in Riv. dir. comm., 2003, p. 389.

(9) G. Tantini, “I Versamenti dei soci alla società”, Giur. comm., 2003 pp. 797 ss.; Finanziamenti «anomali» dei soci e tutela del patrimonio nelle società di capitali, cit., pp. 143-144; M. Campobasso, I finanziamenti dei soci, pp. 124-125; E. Fazzutti, op. cit., p. 48; di opinione contraria, invece, sembrano: D.U. Santosuosso, La riforma del diritto societario, cit., p. 202; F. Tassinari, Il finanziamento della società mediante mezzi diversi dal conferimento, AA.VV., La riforma della società a responsabilità limitata, Milano 2004, pp. 126 ss..

(10) R. Guglielmo, “L’allocazione in bilancio dei finanziamenti e dei versamenti: una questione in via di risoluzione?”, Riv. notariato 2009, p. 365.
Sulle ragioni che inducono ad interpretare nel senso restrittivo indicato la locuzione di «finanziamenti dei soci»ex art. 2467 , 1° comma c.c.: U.Tombari, “«Apporti spontanei» e «prestiti» dei soci nelle società di capitale”, cit. A sostegno della propria conclusione l’Autore invoca anche il testo della Relazione al D.Lgs. n. 6/2003 dove, per l’appunto, si afferma espressamente che «il tema affrontato dalla disposizione di cui all’art. 2467 c.c. è quello dei finanziamenti effettuati dai soci a favore della società che formalmente si presentano come capitale di credito, ma che nella sostanza si presentano come capitale proprio» (p. 148). Ebbene, prosegue, è chiaro come, anche negli intenti del legislatore storico, la disciplina in questione «sia destinata a trovare applicazione solo in ipotesi di finanziamenti che formalmente si presentano come capitale di credito» (pp. 567-568). Al riguardo ancora: M. Campobasso, op. ult. cit., per il quale costituirebbe finanziamento ai sensi del 2467 c.c. «qualsiasi operazione volta a realizzare il trasferimento alla società di una quantità di denaro o di altre cose fungibili, ovvero gliene conceda la disponibilità, con obbligo di rimborso» (p. 117).

(11) cfr. Amplius C. Caccavale, F. Magliulo, M Maltoni, F. Tassinari “La riforma della società a responsabilità limitata”, pag. 123 e ss., IPSOA

(12) Gli apporti patrimoniali dei soci si distinguono tra:
- Versamenti destinati alla restituzione

– Versamenti a fondo perduto

– Versamenti in conto future operazioni sul capitale
I versamenti in conto future operazioni sul capitale, così come quelli a fondo perduto, si sostanziano ab origine in apporti al patrimonio della società, come tali utilizzabili a copertura di perdite maturate o ad aumento del capitale. Non vi è spazio, quindi, per una eventuale postergazione dato che questi finanziamenti non sono mai destinati alla restituzione al socio, se non all’esito della fase di liquidazione.
C.A. Busi, Problemi di qualificazione dei versamenti del socio alla società, in Notariato, 1999, p. 545

(13) M.S. Spolidoro “L’aumento del capitale sociale nelle s.r.l.”, par.20; U. Tombari “il nuovo diritto delle società – liber amicorum Gian Franco Campobasso” diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale – UTET 2006 – vol 1 pagg. 550 ss.
La relazione Vietti, al § 11, si esprime espressamente in tal senso: “L’intento legislativo volto a contrastare forme surrettizie di capitalizzazione è in corso di completamento grazie alla riforma fiscale, ove all’art.4, c.1 lett. g) del disegno di legge approvato al Senato nella seduta del 12.2.2003, si prevedono articolati limiti alla deducibilità degli oneri finanziari relativi a finanziamenti erogati o garantiti dal socio che detiene, direttamente o indirettamente, una partecipazione non inferiore al 10% del capitale sociale.”


(14) cfr. Amplius C. Caccavale, F. Magliulo, M Maltoni, F. Tassinari “La riforma della società a responsabilità limitata”, pag. 125 e ss., IPSOA
In tal senso si esprime la Relazione Ministeriale, secondo la quale sono soggette alla norma in questione quelle operazioni in cui “la causa del finanziamento è da individuare nel rapporto sociale (e non in un generico rapporto di credito)”.

(15) N. Abriani “Finanziamenti anomali dei soci e regole di corretto finanziamento nella società a responsabilità limitata”, Studi in onore di Giuseppe Zanarone, in corso di edizione

(16) N. Abriani, op. cit.; L. Stanghellini “Il credito “irresponsabile” alle imprese e ai privati”, Società, 2007, p.400.

(17) G. Balp “Articolo 2467”, in “Commentario alla riforma delle società”, Giuffrè, 2008, p.236.

(18) Pisani Massamormile “Conferimenti in s.p.a. e formazione del capitale”, p. 268 e ss.; C.A. Busi, “S.p.a.- s.r.l. Operazioni sul capitale”, p. 213.

(19) G. Balp, op. cit., p. 245. Deve escludersi che la norma disponga una «riqualificazione coattiva» del finanziamento in conferimento, in quanto è prevista la degradazione ex lege del socio a rango di creditore subchirografario, per cui, anche in tal caso, in presenza di versamenti con diritto alla loro restituzione, permane l’iscrizione dei relativi importi tra i debiti; cfr. M. Rubino De Ritis, op. cit., p.1021 e ss.; G.Tantini, “I Versamenti dei soci alla società”, op. cit., p. 798; ancor più chiaramente: G. Terranova, Commento sub art. 2467 c.c., in Società di capitali, Commentario a cura di G. Nicolini – A. Stagno d’Alcontres, pp. 1454 e 1457. In senso contrario, Trib. Monza 13 novembre 2003, in Società, 2004, 746, con nota di Colavolpe. In relazione al problema della «riqualificazione», con ampio esame dell’esperienze straniere, G.B. Portale, “I «finanziamenti» dei soci nelle società di capitali”, in Banca borsa e tit. cred., 2003, I, 663 ss., ed ivi riferimenti.

(20) Solo in caso di una potenziale incapacità dell’impresa di adempiere all’impegno nei confronti dei suoi creditori vi è un rischio concreto di trasferimento all’esterno del rischio d’impresa. G. Balp, op. Cit, p.288

(21) In tal senso N. Abriani op. cit. ed autori citati in nota 34 nell’opera; G. Balp op.cit., p.245; G. Ferri Jr, “In tema di postergazione legale”, in Riv. Dir. Comm. 2004, p.974 ss.

In senso contrario, G.F. Campobasso, “I prestiti postergati nel diritto italiano”, in “Ricapitalizzazione delle banche e nuovi strumenti di ricorso al mercato”, a cura di G. B. Portale, p.130 (dovendosi intendere quale condizione sospensiva del diritto al rimborso); A. Ferrucci e C. Ferrentino, “Sull’analicità o sinteticità del verbale, sugli effetti del mancato deposito dei titoli azionari, sulla natura dei versamenti in conto capitale e sull’art.2467 cc.”, Riv. notariato 2009, p.1065 e ss. (ritenendo che i soci finanziatori potranno realizzare il loro credito, sulla base di quello che potrà residuare, solo dopo che si sarà provveduto a pagare tutti gli altri creditori); M. Campobasso “Finanziamento del socio”, in Banca borsa tit. cred. 2008, p. 441 (secondo il quale il finanziamento non può essere rimborsato finché permangono le circostanze che ne hanno determinato la postergazione). In senso dubitativo: M. Maugeri “Finanziamenti «anomali» dei soci e tutela del patrimonio nelle società di capitali”, Milano 2005, p.132 ss. (in quanto la subordinazione discende dall’assimilazione funzionale del prestito al capitale).

(22) N. Abriani, op. cit.

(23) Il caso disciplinato dall’art. 2271, c.c., è in realtà differente da quello oggetto di questa analisi sotto più punti di vista. Non solo infatti, i due casi divergono per il numero dei soggetti, quanto soprattutto perché nel caso dell’art. 2271, c.c., il debito nei confronti della società grava su un terzo e non su un socio e di conseguenza non può trattarsi di un debito da conferimento dalla presenza del quale appunto sorgono tutti i problemi ai quali si cerca di trovare una soluzione.

(24) V. Salafia, “Aumento del capitale e conferimento di crediti”, Le società, 1988, p. 225 e ss.

(25) G.A.M. Trimarchi, op. cit.

(26) In senso favorevole all’ammissibilità della compensazione: P. Marchetti “Problemi in tema di aumento di capitale”, Aumenti e riduzioni di capitale, Milano, p. 79 e ss.; C. Angelici “Appunti sull’art.2346 codice civile con particolare riguardo alla compensazione” in Giur Comm. 1988, I p.275 e ss.; V. Salafia “Aumento di capitale e conferimento di crediti” Le Società, 1988, p. 225 e ss.; N. Atlante “Compensazione del credito del socio con il debito da sottoscrizione”, Le società 1995 p. 45 e ss.; Cass. N. 936, 05-02-1996, Le società, p. 782; M. Maltoni “Compensazione del credito del socio verso la società con il ebito sorto a suo carico a seguito della sottscrizione del capitale sociale”, Giur. Comm. 1994, p.205. In giurisprudenza: Cass. N.936 del 5 febbraio 1996; n. 4236 del 24 aprile 1998; App. Roma 3 settembre 2002; Trib. Milano 9 febbraio 1995, Trib. Piacenza 1°giugno 1995, App. Campobasso 7 aprile 1993
In senso contrario, ritenendo che in tal modo verrebbero aggirate le norme sull’obbligo della perizia nel conferimento dei crediti, v. F. Di sabato “Sulla estinzione per compensazione del debito di conferimento”, Contratto e Impresa, 1995, p. 656 e ss.

(27) N. Atlante, op. Ct.; Trib. Isernia, 27 luglio 2004, Trib. Rossano, 24 marzo 2005.

(28) V. App. Campobasso 7 aprile 1993, sull’inammissibilità della compensazione in caso di crediti sorti successivamente alla delibera di aumento e Trib. Monza 10 giugno 1997, sull’inammissibilità della compensazione nell’ipotesi in cui il credito del socio fosse stato appositamente precostituito.

(29) Contra: Di sabato “Sull’estinzione della compensazione del debito di conferimento” Contr. e Impr., 1995, p. 611 il quale ritiene nulla una tale delibera in quanto sarebbe competenza degli amministratori decidere di accettare la compensazione.

In senso favorevole: Giordano “Note sulla compensabilità del debito da conferimento”, Riv. Soc., 1996, p. 782; G.A.M. Trimarchi, op. Cit; C.A.Busi, “S.p.a.-s.r.l. Operazioni sul capitale”, p. 219.
Escludono la necessità di una espressa previsione della possibilità di utilizzare la compensazione, pur ritenendola ammissibile: G. De Marchi, A. Santus, L. Stucchi, “art. 2481-bis”, Commentario alla riforma delle società, p.1215 e ss.

V. Trib. GE 14 giugno 2005, per il quale non solo non vi è il diritto del socio ad opporre la compensazione laddove la delibera preveda obbligatoriamente la liberazione mediante versamento in denaro data la necessità di dotare la società di nuovi apporti finanziari, ma la possibilità di operare la compensazione deve essere espressamente prevista dalla delibera.

(30) Arg. ex art. 1246 c.1 n.4 c.c. La possibilità di limitare le modalità di liberazione dell’aumento imponendo il versamento in denaro e quindi impedendo di fatto la compensazione con crediti da finanziamento vantati dai soci, è sicuramente ammissibile così come l’assemblea può deliberare che la sottoscrizione avvenga con liberazione integrale e non con il versamento del solo 25%.

(31) R. Guglielmo, op. cit.; G. Tantini, «I versamenti in conto capitale», cit., p. 109

(32) In Le Società, con nota a commento di A. Busani, n.11/2010, p. 1301 e ss.

(33) Per un commento critico alla sentenza v. A. Busani “Tassazione per enunciazione del finanziamento soci passato a capitale sociale”, Le Società, n.11/2011, p. 1303

(34) Al fine di evitare tale tassazione è quindi presumibile che nella pratica verranno adottate soluzioni che consentano di differire o di riqualificare la compensazione del finanziamento, quali:

–  il rimborso del finanziamento nell’immediata precedenza dell’assemblea e la successiva liberazione del capitale sottoscritto mediante versamento delle somme appena ricevute in restituzione;

–  la novazione del versamento, già qualificato come “finanziamento”, in riserva in conto futuro aumento capitale;

–  l’adozione della sola delibera di aumento, rimettendo ad un momento successivo la sua esecuzione sì che, verificandosi al di fuori del verbale, se ne eviterà l’enunciazione.

FUSIONI PER INCORPORAZIONE TRA SOCIETA’ UNA DELLE QUALI ABBIA CONTRATTO DEBITI PER L’ACQUISIZIONE DI PARTECIPAZIONI NON DI CONTROLLO.

Qualora una società abbia contratto debiti per acquisire una partecipazione non di controllo in altra società, ovvero per incrementare una preesistente partecipazione già qualificabile come di controllo, la successiva fusione tra dette società non richiede l’osservanza delle regole procedimentali ed informative dettate dall’art. 2501-bis c.c.

Tra le delicate questioni interpretative poste dalla nuova disposizione dettata dall’art. 2501-bis c.c. in tema di «fusioni a seguito di acquisizione con indebitamento», un problema particolarmente rilevante e meritevole di attenzione, anche per i suoi corollari sotto il profilo notarile, riguarda l’applicazione di detta disposizione all’ipotesi in cui una società abbia contratto debiti per acquisire una partecipazione non di controllo ovvero per incrementare una preesistente partecipazione di controllo nell’altra società coinvolta nella fusione.

La risposta che si ritiene di dover dare al quesito è negativa, dovendosi in linea di principio ritenere che lo spettro applicativo della disposizione sia insuscettibile di estensione tanto all’acquisto di una partecipazione che non permetta di conseguire il controllo della società partecipante alla futura fusione, quanto all’incremento di una preesistente partecipazione di controllo, già in essa precedentemente detenuta.

L’ambito di applicazione dell’art. 2501-bis c.c. è delineato dal primo comma della disposizione, il quale statuisce che «nel caso di fusione tra società, una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra, quando per effetto della fusione il patrimonio di quest’ultima viene a costituire garanzia generica o fonte di rimborso di detti debiti, si applica la disciplina del presente articolo».

Il primo ed indefettibile presupposto ai fini della configurabilità della fattispecie regolamentata dall’art. 2501-bis c.c. è dunque che una delle società partecipanti alla fusione «abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra»; soltanto in tale ipotesi è dato ravvisare una fusione qualificabile come merger leveraged buy out, e per ciò soggetta alla più rigorosa procedura analiticamente indicata nei capoversi della norma in esame.

Il requisito della finalizzazione del finanziamento (e più latamente, dell’indebitamento) all’acquisizione del controllo ha un preciso riscontro testuale nella genesi storica della disposizione: l’art. 2501-bis c.c. è stato infatti introdotto, com’è noto, dalla riforma del diritto societario di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, in attuazione dell’art. 7, co. 1, lett. d) della legge n. 366 del 2001, che delegava l’esecutivo ad introdurre una disciplina diretta a stabilire “che le fusioni tra società, una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra, non comportano violazione del divieto di acquisto e di sottoscrizione di azioni proprie, di cui, rispettivamente, agli articoli 2357 e 2357- quater del codice civile, e del divieto di accordare prestiti e di fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione di azioni proprie, di cui all’art. 2358 del codice civile”.

Trova dunque conferma, anche sul piano nomogenetico e delle fonti costituzionali (art. 76 Cost.), la volontà del legislatore storico di riferire la nuova disciplina, non già a tutte le «fusioni a seguito di acquisizione di partecipazioni con indebitamento», ma più selettivamente alle sole «fusioni a seguito di acquisizione del controllo con indebitamento».

Devono pertanto ritenersi elementi coessenziali alla fattispecie delineata dall’art. 2501-bis: a) che vi sia stato un acquisto del controllo; b) che l’acquisto del controllo sia avvenuto utilizzando lo strumento del debito.

Con riferimento a quest’ultimo requisito, si è autorevolmente chiarito che «sono certamente estranee alla nozione letterale di “finanziamento” le dotazioni di mezzi propri della società, come i conferimenti a capitale o sopraprezzo, i versamenti a fondo perduto e in genere gli apporti che non sono soggetti a vincolo di restituzione e che non debbono essere registrati tra le voci del c.d. passivo “reale” del bilancio» (1). Nella definizione di cui sopra devono invece intendersi ricompresi i prestiti obbligazionari a ciò destinati ed i debiti derivanti dalla dilazione di pagamento eventualmente pattuita in sede di acquisizione delle partecipazioni e, per quanto riguarda le somme erogate “fuori capitale” dai soci a favore della società, “deve .. ritenersi che la disciplina sia applicabile nel caso di finanziamenti-soci … e non nel caso di versamenti in conto capitale, che sono poste di netto patrimoniale.”(2) Detti “finanziamenti devono essere ancora in essere al momento della fusione” e “non ha alcun rilievo quanto tempo sia passato fra l’assunzione del finanziamento, l’acquisto del controllo e la fusione”, né “che il finanziamento copra l’intero prezzo di acquisto o una determinata percentuale minima dello stesso ovvero superi una determinata soglia”. (3)

Il ruolo centrale che riveste, nella struttura della fattispecie, lo scopo per cui è assunto l’indebitamento oggetto di “traslazione” sul patrimonio della società acquisita in conseguenza della fusione, emerge del resto in termini non equivoci dalla lettera della norma, che – come si è detto – assegna esclusivo rilievo ai finanziamenti che la società partecipante alla fusione abbia «contratto per acquisire il controllo dell’altra». E non può non condividersi la puntuale esegesi di chi ha immediatamente sottolineato che «la proposizione subordinata “per acquisire il controllo dell’altra” dà rilievo alla finalità dell’assunzione del debito, mentre il participio passato del verbo «contrarre» sembra escludere la rilevanza dei debiti preesistenti alla decisione della società di investire nell’acquisto del controllo” (4). Devono, pertanto, ritenersi rilevanti i debiti “anomali” rispetto alla normale attività d’impresa che siano di fatto stati contratti per procedere all’acquisizione o da essa direttamente discendenti (5) senza che ciò renda la norma applicabile ai casi di fusione tra società già fortemente indebitate per motivi “imprenditoriali” o comunque diversi dal nesso con l’acquisizione della partecipazione di controllo nella target.

E’ in effetti con peculiare riferimento a tali fattispecie – connotate dalla finalizzazione del debito all’acquisizione del controllo, da un lato, e al rapporto di causalità tra fusione e finalizzazione del patrimonio della società acquisita a garanzia o a fonte di rimborso del debito, dall’altro – che dottrina e giurisprudenza avevano in passato ravvisato possibili rischi di elusione del divieto di assistenza finanziaria enunciato dall’art. 2358 c.c.

La nuova disciplina, anche alla luce delle chiare indicazioni della legge delega, consente pertanto di affermare che, in assenza dei presupposti ora ricordati (e segnatamente, in assenza di una acquisizione del controllo), la legittimità della fusione non richiede necessariamente l’osservanza delle regole procedimentali ed informative dettate dall’art. 2501-bis c.c..

Come ha osservato la dottrina già richiamata, «la legge parla solo dell’acquisto del controllo, il che presuppone che il controllo prima non ci sia» (6).

La formulazione della norma appare invero chiara ed inequivoca e non può pertanto essere dilatata fino al punto di comprendere ipotesi che manifestamente essa non contempla, quali l’incremento di una preesistente partecipazione di controllo (7), ovvero l’acquisto di una partecipazione che non permetta di conseguire il controllo della società partecipante alla futura fusione.

Il legislatore si è concentrato sull’acquisizione del controllo ritenendo che in questa ipotesi si crei un pericolo per il sistema (e ciò quand’anche l’acquisizione del controllo avvenga per cause in qualche modo “indipendenti” dalla volontà del socio quali ad esempio: il recesso degli altri soci o l’operare di clausole tag-along o drag-along ); se ne deduce che l’interesse tutelato non è tanto la tutela dei soci e dei creditori per il fatto che si operi una fusione con una società fortemente indebitata (ipotesi peraltro ben possibile anche in assenza di controllo e per la quale il legislatore non ha previsto alcuna ulteriore cautela al fuori di quelle ordinariamente previste per le fusioni in genere) quanto il fatto che l’indebitamento sia stato contratto al fine dell’acquisizione del controllo perché questo potrebbe avere effetti distorsivi sul mercato (8).

Il legislatore si occupa della sola ipotesi del controllo e non delle altre ipotesi non ritenendole ugualmente pericolose per la società, i suoi soci ed il ceto creditorio e ciò perchè:

– nel caso di acquisizione di una quota di minoranza, saranno gli altri soci – rappresentanti la maggioranza del capitale sociale e dei quali gli amministratori sono espressione – a valutare in assemblea se l’interesse della società è tale da rendere opportuno l’accollo dell’onere dell’acquisizione per quanto grande sia; proprio perchè la decisione resta, comunque rimessa agli altri soci ed alla loro valutazione imprenditoriale nonchè agli amministratori, che sono da loro espressi, non sussiste la necessità di una ulteriore verifica indipendente sulla sostenibilità economico e finanziaria dell’operazione, trattandosi, in fondo di una normale scelta imprenditoriale, come lo sarebbe una qualsiasi operazione finaziariamente pericolosa;

– nel caso di incremento del controllo tale spiegazione non vale; in questo caso, l’indebitamento è però diretto a rafforzare la posizione all’interno di una società già acquisita con mezzi propri o comunque acquisita per la maggioranza del capitale con mezzi propri (perché se vi fosse stato indebitamento la fattispecie andrebbe ricostruita unitariamente, come detto in seguito e l’applicazione della norma sarebbe indiscussa) e dunque il rischio di riversare sui creditori della target l’indebitamento è sensibilmente inferiore (o ritenuto-postulato comunque tale dal legislatore). In questa ipotesi l’interesse sociale coincide con quello del socio imprenditore/controllante che ha già molto investito nella società obiettivo e quindi si presuppone non stia compiendo un’operazione spregiudicata a spese della società, ma stia cercando di porsi nelle condizioni migliori per perseguirne l’interesse; senza considerare che, come detto sopra, l’acquisizione dell’ulteriore partecipazione potrebbe essere in qualche misura una scelta obbligata per l’acquirente proprio per continuare a perseguire il suo progetto.

A conclusioni diverse potrebbe giungersi qualora si ritenesse di poter ricondurre la disciplina di cui all’art. 2501-bis c.c. all’interno del perimetro di applicazione delle regole dettate in tema di assistenza finanziaria dall’art. 2358 c.c. per le società azionarie (nella nuova formulazione introdotta dal d.lgs. 4 agosto 2008 n. 142 in attuazione della Direttiva 2006/68/CE che ha modificato la Direttiva 77/91/CE) e dall’art. 2474 c.c. per la s.r.l. (il cui testo è rimasto invariato). Tale ricostruzione, tuttavia, è respinta dalla dottrina maggioritaria (9), stanti i diversi piani operativi ed applicativi delle due disposizioni che possono affiancarsi, ma non si sovrappongono. A questo riguardo si è rilevato come l’inciso contenuto nell’attuale formulazione dell’art. 2358 c.c., laddove fa salva l’applicazione delle procedure “aggravate” di cui agli artt. 2501-bis e 2381-bis debba interpretarsi «nel senso che qualora l’assistenza finanziaria configuri una operazione con parti correlate oppure sia strumentale ad una fusione con indebitamento, il mero rispetto delle regole dettate dal nuovo art. 2358 non è di per sé solo sufficiente a garantire la legittimità dell’operazione, dovendosi altresì osservare, rispettivamente, la disciplina delle operazioni con parti correlate (art. 2391-bis) o della fusione a seguito di acquisizione con indebitamento (art. 2501-bis c.c). Tale applicazione congiunta sarà peraltro necessaria soltanto nelle ipotesi in cui sussistano in concreto i requisiti previsti da ciascuna di queste disposizioni». In questa prospettiva si è soggiunto che «non potrebbe invece condividersi una diversa e più rigorosa interpretazione, che – facendo anche leva sugli avverbi “direttamente o indirettamente” inseriti dal d.lgs. n. 142/2008 nella riformulazione del divieto di assistenza finanziaria di cui al nuovo primo comma dell’art. 2358 – postuli una generale sussunzione delle operazioni di merger leveraged buy out all’interno della sfera applicativa del divieto di assistenza finanziaria», posto che «tale irrigidimento interpretativo, oltre a non trovare alcun supporto nei lavori preparatori, risulterebbe in palese contrasto con la ratio ispiratrice dell’intervento comunitario dichiaratamente diretto a incoraggiare un mercato delle partecipazioni che agevoli il ricambio degli assetti proprietari» (10). Alla luce di tali premesse può dunque escludersi che il nuovo ultimo comma dell’art. 2358 possa essere richiamato allo scopo di ampliare il perimetro operativo dell’art. 2358, valendo piuttosto a confermare che l’art. 2358 e l’art. 2501 bis hanno «diversa funzione e diversi ambiti di applicazione» e sono dunque destinati a trovare applicazione «ove ne ricorrano, per ciascuno di essi, i presupposti» (11).

È peraltro evidente che, nell’accertamento degli autonomi e peculiari presupposti applicativi dell’art. 2501-bis, l’interprete non potrà limitarsi ad un approccio meramente formalistico, imponendosi il rispetto della norma anche in ipotesi di operazioni che, sebbene appositamente frazionate, siano coordinate al raggiungimento dello scopo finale dell’acquisizione del controllo, e quindi in tutti i casi in cui sia desumibile, anche implicitamente, un programma complessivo che preveda l’acquisizione delle partecipazioni della target in momenti successivi per uno od alcuni solo dei quali – magari perfezionatisi quando già il controllo sia stato raggiunto o prima ancora del suo raggiungimento – sia previsto il ricorso ad un massiccio indebitamento (12). Ne consegue che, al momento dell’adozione della delibera di fusione, si dovrà avere riguardo allo svolgimento dell’intera cronologia dell’acquisizione del controllo al fine di applicare la disciplina in parola ogni qual volta dalla stessa emerga “ictu oculi” che, per accordi tra soci, modi, tempi, modalità di finanziamento e soggetti coinvolti, ci si trovi davanti ad un’operazione unitariamente concepita.

Sempre in questa prospettiva sostanzialistica va soggiunto che la nozione di controllo che qui interessa non deve, necessariamente, essere circoscritta alle fattispecie di controllo azionario contemplate dai nn. 1) e 2) dell’art 2359 (ritendosi unanimemente il n. 3 escluso dalla fattispecie in oggetto), in quanto appare «possibile (ed opportuno) interpretare la nozione di controllo, ai fini dell’art. 2501-bis, nuovo testo, in modo svincolato dalla definizioni riscontrabili nel codice civile o nelle leggi speciali: si dovrebbe insomma tener conto degli interessi tutelati dalla disposizione» (13); ne consegue che deve intendersi rilevante, ai fini dell’art. 2501-bis, qualsiasi forma di controllo che consenta ad un socio (che prima non aveva tale potere) di influire direttamente ed in maniera determinante sui procedimenti decisionali della società, anche, ad esempio, in forza dei diritti particolari previsti nelle s.r.l. dal terzo comma dell’art. 2468 c.c. ovvero delle particolari maggioranze statutariamente previste.

Il Notaio nella verifica della sussistenza delle condizioni richieste per l’applicazione dell’art. 2501- bis non può spingersi a sindacare le risultanze delle valutazioni univoche degli amministratori e degli esperti indipendenti, ma deve essere attento alla presenza di indici inequivocabili che segnalino la contrazione di debiti collegati all’acquisizione del controllo quali ad esempio: dilazioni di pagamento per l’acquisto delle partecipazioni, ovvero costituzione di pegno sulle stesse in relazione a finanziamenti non diversamente destinati. (14)

Sebbene non necessaria, per le considerazioni sopra svolte, l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 2501-bis anche ai casi di acquisto di partecipazione non di controllo o di incremento di controllo preesistente, deve comunque ritenersi un’opzione certamente legittima, determinando il ricorso (volontario) ad un procedimento che amplia le informazioni messe a disposizione dei terzi e dei soci e non idoneo a comprimere in alcun modo i diritti degli stessi.

 

(1) M.S. SPOLIDORO, Fusioni pericolose (merger leveraged buy out), in Riv. soc., 2004, p. 232

(2) L.G. PICONE, Il leveraged buy out nella riforma del diritto societario, in Contratto e impresa, 2003, p. 1409

(3) M.S. SPOLIDORO, Fusioni pericolose, cit., p. 234 s.

(4) Così ancora M.S. SPOLIDORO, Fusioni pericolose, cit., p. 233, ove il rilievo conclusivo che «i finanziamenti debbono sorgere e trovarsi in relazione di “mezzo a scopo” rispetto all’acquisizione del controllo»

(5) In questo senso sembra anche P. MONTALENTI, Il leveraged buy out nel nuovo diritto penale commerciale e nella riforma del diritto societario, in Giur. Comm. 2004, p. 814/1

(6) e v. ancora M.S. SPOLIDORO, op. cit., p. 238

(7) In questo senso invece L. G. PICONE, Il leveraged buy out nella riforma del diritto societario, cit., p. 1416

(8) In questo senso l’Orientamento L.B.2 del “COMITATO TRIVENETO DEI NOTAI IN MA TERIA DI ATTI SOCIETARI” che afferma: “Le disposizioni di cui all’art. 2501bis c.c. trovano sempre applicazione, anche nei casi in cui: – tutti i soci delle società coinvolte nella fusione e tutti i creditori delle medesime abbiano manifestato il loro consenso a derogare alla procedura di legge; – la società incorporante detenga l’intero capitale sociale dell’incorporata. Si precisa infatti che dette disposizioni sono volte essenzialmente ad evitare comportamenti distorsivi del mercato e dell’economia posti in essere sfruttando la leva finanziaria attuata mediante l’acquisto del controllo di società con finanziamenti destinanti ad essere garantiti o rimborsati con il patrimonio delle medesime società acquistate. In altre parole è nella fisiologia del sistema che una società non possa acquistare il controllo di un’altra mediante indebitamento se non sia dotata di adeguate garanzie o risorse economiche, anche solo potenziali. Tale circostanza garantisce di per sé l’impossibilità del crearsi di concentrazioni imprenditoriali prive di un adeguato piano economico e finanziario che ne assicuri la sopravvivenza, ovvero il crearsi di concentrazioni giustificate esclusivamente da intenti speculativi di breve respiro. Nella norma in commento risulta di contro estremamente attenuata, se non del tutto assente, la volontà di tutelare i soci delle società coinvolte nell’operazione da possibili annacquamenti delle loro partecipazioni o i terzi creditori da rischi di insolvenza. Gli interessi portati dai soci o dai terzi creditori sussistono infatti tutte le volte che una fusione avvenga tra società indebitate e società non indebitate, prescindendo quindi dalla circostanza che i debiti siano stati contratti al fine di acquisire il controllo della incorporata da parte dell’incorporante. Inoltre l’art. 2501bis c.c. trova applicazione esclusivamente quando l’indebitamento è finalizzato ad acquisire il controllo della società “bersaglio” e non anche quando lo stesso è funzionale all’acquisto di una partecipazione che non garantisca il controllo, ancorché di rilevante valore. In realtà gli interessi dei soci e dei terzi creditori trovano la loro tutela naturale in altre norme, indipendentemente dall’applicabilità dell’art. 2501bis c.c.. Così ad esempio i soci sono tutelati dalle garanzie che assistono la effettiva congruità del rapporto di cambio e dalla possibilità di esercitare il recesso in caso di dissenso sulla fusione, mentre i creditori sono tutelati con il potere di opposizione ad essi concesso dall’art. 2503 c.c.”

(9) Tra gli altri N. ABRIANI Le azioni e gli altri strumenti finanziari, in Trattato di diritto commerciale diretto da Gastone Cottino, vol. IV, 1, Padova, 2010, p. 430; F. MAGLIULO, La fusione delle società, Milano, 2009, p. 135 ss.; L. G. PICONE, Il leveraged buy out nella riforma del diritto societario, cit., p. 1394; A. MORANO, Il merger leveraged buy-out alla luce del nuovo art. 2501 bis, in Società, 2003, 952 s. P. CARRIERE, Le operazioni di “leveraged cash-out”: spunti critici, in Società, 2005, p. 720.

(10) N. ABRIANI Le azioni e gli altri strumenti finanziari, cit., ove si richiama il quinto Considerando della Direttiva 2006/68 che, pur ribadendo la necessità di tutelare gli interessi degli azionisti e dei terzi, giustifica l’introduzione della facoltà per gli Stati membri di superare l’assolutezza del divieto di assistenza finanziaria proprio alla luce dell’esigenza di «rafforzare la flessibilità con riguardo ai cambiamenti della struttura proprietaria».

(11) F. MAGLIULO, La fusione delle società, cit., pag. 139

(12) In queste ipotesi, al fine di ricostruire nella fattispecie concreta la sostanziale unitarietà delle operazioni, potrebbero essere utilmente richiamati gli approdi dottrinali e giurisprudenziali in tema di acquisti rilevanti per l’applicazione della disciplina sull’offerta pubblica di acquisto di cui agli artt. 101-bis ss.T.U.F

(13) M.S. SPOLIDORO, Fusioni pericolose, cit., p. 232.

(14) Come nota giustamente M.S. SPOLIDORO, Fusioni pericolose, cit., p. 236, non si può “richiedere al Notaio, che deve verificare la legittimità della procedura, di effettuare controlli che non fanno parte del suo curriculum professionale” effettuando un accertamento che “non sarà, comunque, sempre possibile ictu oculi” in questo senso anche l’Orientamento L.B.6 del “COMITATO TRIVENETO DEI NOTAI IN MATERIA DI ATTI SOCIETARI” che afferma: “La verifica circa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 2501bis c.c. ad una determinata fusione, comportando valutazioni di merito sulle situazioni patrimoniali e finanziarie delle società coinvolte, compete esclusivamente agli amministratori e non al notaio verbalizzante.

La predisposizione di un progetto di fusione e degli altri documenti accompagnatori privi degli elementi previsti dall’art. 2501bis c.c. integra l’accertamento da parte degli organi amministrativi della mancanza dei presupposti per l’applicabilità al caso concreto della disciplina della fusione con indebitamento, ricorrendo quindi tale presupposto è inibito al notaio ogni ulteriore controllo.

Nel caso contrario il controllo del notaio sulla rituale adozione delle delibere di fusione con indebitamento è limitato alla verifica della sussistenza degli elementi formali richiesti dalla normativa, non essendo possibile per lo stesso entrare nel merito delle valutazioni effettuate dagli amministratori e dagli esperti ai sensi dei commi secondo, terzo, quarto e quinto del detto art. 2501bis c.c.”

 

POTERI INFORMATIVI DEI SINGOLI AMMINISTRATORI DI S.P.A. NON QUOTATA.

Deve ritenersi legittima la clausola di uno statuto di una s.p.a. non quotata che preveda il potere del singolo consigliere di amministrazione di chiedere agli amministratori esecutivi, anche in sede extra-consiliare, ai dirigenti e al personale della società, informazioni relative alla gestione ed alle operazioni societarie, a condizione che essa: i) indichi in modo specifico le modalità di accesso alle informazioni, modalità che devono essere tali da non ostacolare il normale esercizio dell’attività sociale; ii) preveda l’obbligo per il consigliere che ha ottenuto le informazioni richieste di informare l’intero consiglio.

1. Il quesito.

Ci si chiede se ed in quali limiti lo statuto di una s.p.a. possa prevedere una clausola che integri i poteri informativi dei singoli amministratori, rispetto a quanto previsto dall’art. 2381, ultimo comma, c.c. Il dubbio, in particolare, riguarda la legittimità di una previsione statutaria che consenta ad ogni singolo consigliere di amministrazione di chiedere le informazioni ritenute opportune al fine di svolgere la sua attività:

(a) agli amministratori esecutivi, anche al di fuori delle riunioni consiliari (b) ai dirigenti e, in generale, al personale della società.

L’esigenza di clausole statutarie di questo tipo si profila maggiormente (anche se non esclusivamente) in società per azioni non quotate a ristretta base sociale e caratterizzate dalla presenza di più gruppi di soci ovvero dalla presenza di fondi di Private Equity.

2. La soluzione.

È legittima la clausola di uno statuto di s.p.a., in forza della quale ciascun consigliere di amministrazione possa chiedere, anche in sede extra-consiliare, agli amministratori esecutivi, ai dirigenti così come, in generale, al personale della società le informazioni funzionali allo svolgimento della propria attività. In tale ipotesi, tuttavia, lo statuto deve altresì prevedere: i) in modo specifico le modalità di accesso alle informazioni, modalità che devono essere tali da non ostacolare il normale esercizio dell’attività sociale; ii) l’obbligo per gli amministratori che hanno chiesto ed ottenuto tali informazioni di metterle a disposizione dei consiglieri non richiedenti alla prima riunione utile del c.d.a., ovvero, nel caso in cui sussistano motivate ragioni di urgenza, per informare immediatamente l’organo consiliare, l’obbligo di tali consiglieri di richiedere senza ritardo la convocazione del consiglio.

3. La motivazione: il quadro normativo.

La disciplina di riferimento in relazione ai rapporti fra il consiglio di amministrazione e gli eventuali organi delegati è contenuta nell’art. 2381, c.c., il quale dispone che l’organo amministrativo possa delegare proprie funzioni ad un comitato esecutivo oppure ad uno o più amministratori delegati (art. 2381, secondo comma, c.c.). L’effettivo conferimento delle deleghe gestorie fa sì che si realizzi un trasferimento di prerogative e funzioni dall’organo consiliare all’organo delegato, con conseguente fisiologico depauperamento informativo del primo organo a favore del secondo. Il che è ampiamente testimoniato dalla prassi, dal momento che la presenza di organi delegati, nelle forme anzidette, rappresenta un dato costante, nelle piccole come nelle medie e grandi società per azioni.

Al fine di evitare che tale depauperamento finisca con l’impedire al consiglio di amministrazione di svolgere in modo consapevole ed efficiente le importanti funzioni che allo stesso spettano, pur in presenza di una delega gestoria, il quarto comma dell’art. 2381, c.c., prevede l’obbligo per gli organi delegati di riferire al consiglio secondo la periodicità prevista dallo statuto e comunque quanto meno ogni sei mesi sul generale andamento della gestione, sulla

sua prevedibile evoluzione, sulle operazioni di maggior rilievo effettuate dalla società o dalle compagini sociali da questa controllate.

L’ultimo comma dell’art. 2381, c.c., inoltre, prevede che tutti gli amministratori debbano sempre e comunque agire in modo informato (1) e, al fine di permettere che ciò avvenga, dispone altresì che essi possano richiedere agli organi delegati che “in consiglio” siano fornite informazioni in merito alla gestione della società.

Sempre in relazione alle prerogative informative degli amministratori, deve infine ricordarsi il disposto di cui all’ art. 2381, primo comma, c.c., il quale prevede fra i doveri del Presidente dell’organo amministrativo quello di provvedere «affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri». Tale disposizione è poi ulteriormente completata, per le società quotate, dall’art. 1 del Codice di autodisciplina, secondo il quale “il presidente del consiglio di amministrazione si adopera affinché le informazioni e i documenti rilevanti per l’assunzione delle decisioni di competenza del consiglio siano messi a disposizione dei suoi componenti con modalità e tempistica adeguate.”

4. (segue) i poteri informativi del singolo amministratore.

Le disposizioni richiamate ammettono, dunque, un generale potere informativo in capo ad ogni amministratore, ponendo altresì doveri di informazione periodica a carico degli organi delegati e affidando al Presidente il compito di assicurare che in vista delle riunioni consiliari siano fornite adeguate informazioni a tutti i consiglieri.

Il potere informativo previsto dal Codice sembra comunque esaurirsi in seno al consiglio; anche le ulteriori informazioni che gli amministratori possono richiedere debbono essere canalizzate all’interno del consiglio di amministrazione (art. 2381, ult. co.).

Al riguardo, la dottrina maggioritaria ritiene che tali ulteriori informazioni possano essere rese esclusivamente in seno all’organo consiliare e non invece al singolo amministratore al di fuori del collegio (2); ciò al fine di evitare che si realizzino asimmetrie informative fra i vari membri dell’organo amministrativo (3).

La dottrina sembra dunque tendenzialmente escludere l’esistenza di un potere informativo che il singolo consigliere possa esercitare individualmente, mediante richieste rivolte direttamente agli organi delegati al di fuori del consiglio di amministrazione.

Analogamente, in mancanza di una espressa previsione legislativa in tal senso, è opinione assolutamente maggioritaria che i singoli amministratori non siano titolari né del potere di richiedere (e ottenere) informazioni direttamente ai dirigenti o, in generale, al personale della società, né del potere di effettuare ispezioni (4). La ratio di tale divieto andrebbe rintracciata nella necessità di evitare che l’esercizio dei poteri individuali da parte degli amministratori intralci lo svolgimento dell’attività di impresa (5).

La disciplina dei flussi informativi illustrata in precedenza, tuttavia – pur essendo stata prevista al fine di garantire l’apprezzabile obiettivo di assicurare trasparenza ed uniformità conoscitiva fra gli amministratori così come il proficuo andamento dell’attività sociale – potrebbe avere come criticabile effetto quello di comprimere eccessivamente i flussi informativi, impedendo l’effettiva circolazione delle informazioni, dal momento che i componenti dell’organo amministrativo non sarebbero liberi di agire singolarmente al fine di ottenere le informazioni che ritengono necessarie per svolgere l’incarico affidatogli. Questo non solo in riferimento ai colleghi titolari di deleghe operative, ma altresì ed in generale rispetto a tutta la “struttura” dell’impresa, comprendendo, pertanto, i dirigenti ed il del personale della società.

La limitazione dei poteri informativi alla sola sede consiliare, rischia del resto di frustrare le esigenze alla base delle stesse richieste informative, anche per la necessità di rispettare le procedure di convocazione dell’organo collegiale e le relative tempistiche.

La descritta “staticità informativa”sembra inoltre contrastare con l’interesse a che gli amministratori – ancorché non esecutivi – svolgano in modo consapevole ed efficiente la loro attività, la quale comprende, fra l’altro: (i) il generale monitoraggio degli organi esecutivi, con conseguente possibilità di formulare direttive nei confronti di costoro ed avocare a sé le prerogative inizialmente delegate; (ii) prima ancora, l’approvazione del progetto di bilancio.

La questione relativa al flusso informativo del quale possono risultare destinatari i consiglieri di amministrazione in basa alla suddetta disciplina – la quale, come evidenziato, prevede la possibilità di richiedere informazioni agli organi delegati ma non alla “struttura” della società – inoltre, risulta essere particolarmente problematica nel caso in cui lo svolgimento dell’attività esecutiva sia affidata a managers esterni all’organo consiliare quali, fra gli altri, i direttori generali.
Infine, l’argomento secondo il quale il disposto dell’art. 2381 osterebbe alla previsione di modalità di accesso alle informazioni diverse rispetto alla sede consiliare, sembra provare troppo ed è smentito dal Codice di autodisciplina laddove assegna ai comitati istituiti in seno al cda, “la facoltà di accedere alle informazioni e alla funzioni aziendali necessarie per lo svolgimento dei loro compiti” (art. 5 C 1), senza passare per la via consiliare plenaria.

È necessario interrogarsi, pertanto, in merito all’eventuale legittimità di clausole statutarie funzionali a prevedere in capo agli amministratori poteri

informativi ulteriori e più pervasivi rispetto a quelli espressamente previsti dal legislatore.

5. (segue) il ruolo della autonomia statutaria.

La possibilità di intervenire in via statutaria al fine di integrare i poteri informativi degli amministratori è generalmente riconosciuta (6); è necessario verificare, tuttavia, i limiti, nel rispetto dei quali l’autonomia statutaria è chiamata ad operare in questo specifico ambito.

A tal fine deve opportunamente farsi riferimento alla ratio e agli interessi sottesi alla disciplina di cui all’art. 2381, c.c..

Se si muove dal presupposto che il legislatore abbia voluto circoscrivere i flussi informativi all’interno del consiglio per evitare i ricordati rischi di asimmetrie informative e per evitare possibili intralci all’attività gestoria è necessario che l’eventuale clausola statutaria:

(i) garantisca l’omogeneità informativa in seno al consiglio di amministrazione e

(ii) non metta a rischio l’efficiente svolgimento dell’attività di impresa, definendo dettagliatamente idonee modalità di accesso alle informazioni.

Una previsione statutaria dotata dei contenuti appena prospettati non contrasterebbe in alcun modo con alcuno degli interessi inderogabili sottostanti alla disciplina legislativa.

Del resto non si può dimenticare che l’organo consiliare, nel suo plenum, è destinatario di funzioni “apicali” non delegabili, che ben possono richiedere supplementi informativi non rimessi alla sola diligenza ed operatività dei delegati. Basti pensare alla possibilità di interloquire efficacemente in merito ai piani strategici ed industriali o alla necessità di giungere all’approvazione del progetto di bilancio in modo consapevole.

Su altro piano, e segnatamente sul piano delle conseguenze in capo ai singoli amministratori, si potrebbe dire che la previsione statutaria in merito a poteri ulteriori rispetto a quelli previsti dal codice rischierebbe di estendere gli ambiti di responsabilità a carico degli organi non esecutivi; in sostanza, aumentando i poteri (si potrebbe sostenere che) aumentano le responsabilità. Al di là del fatto che un simile argomento rileverebbe sul piano dell’opportunità di introdurre una clausola estensiva e non certo su quello della sua legittimità, occorre peraltro precisare che:

(i)  pur ammettendo che i poteri informativi degli organi non delegati siano ristretti in base all’attuale assetto normativo, non è in alcun modo detto che ciò finisca realmente per circoscrivere gli ambiti di responsabilità, dal momento che l’estensione ed i contenuti di tali poteri non sono tuttora definiti con assoluta precisione a livello legislativo ed interpretativo; tali poteri sono da inquadrare, inoltre, nell’ambito dei poteri-doveri (funzioni), il cui esercizio è doveroso ogni qual volta lo richiedano i principi di corretta amministrazione, gli obblighi di diligenza e quelli che scaturiscono dal possesso di particolari competenze. Anche sul piano dell’opportunità, dunque, è tutto da dimostrare che l’assenza di ogni previsione statutaria in merito agli ambiti effettivi di acquisizione delle informazioni possa garantire una efficace copertura da responsabilità;

(ii)  al contrario, la previsione statutaria in merito a specifici poteri “informativi” individuali potrebbe offrire maggiore certezza relativamente agli effettivi poteri (e, correlativamente, responsabilità) del singolo amministratore e potrebbe altresì incentivare gli organi delegati a fornire fin da subito, in seno al consiglio, informazioni più precise e dettagliate.

Sembra pertanto legittima la clausola dello statuto volta a permettere a ciascun singolo amministratore di chiedere ed ottenere anche individualmente – cioè in sede extra-consiliare – informazioni funzionali allo svolgimento della sua attività, e ciò in riferimento sia ai colleghi esecutivi che ai dirigenti ed al personale della società.

È necessario, tuttavia, altresì stabilire che nel caso in cui, alla luce di quanto conosciuto, vi sia l’urgenza e la necessità di informare il consiglio,

l’amministratore che abbia esercitato il potere informativo uti singulus dovrà senza indugio chiederne la convocazione e riferire quanto appreso. Nel caso in cui le dette condizioni, invece, non sussistano, l’amministratore dovrà comunque informare l’organo consiliare, in occasione della prima riunione utile, della iniziativa informativa intrapresa e delle risultanze della stessa o comunque dovrà informare il Presidente, che sembra emergere come il reale motore dei flussi informativi ed il principale responsabile di una loro adeguata circolazione (art. 2381, Codice Autodisciplina).

Tale procedura non solo assicurerebbe una uniforme diffusione delle informazioni fra tutti gli amministratori, ma garantirebbe altresì al consiglio di amministrazione una opportuna conoscenza delle iniziative di tipo informativo eventualmente assunte da un suo componente, sì da permettere che vengano valutati eventuali eccessi nel ricorso ai suddetti poteri.

In relazione, poi, al rischio che l’amministratore abusi della temporanea asimmetria informativa che si potrebbe creare (dal recepimento dell’informazione alla comunicazione della stessa al consiglio), deve rilevarsi che in capo a questi vigerebbe comunque il divieto di utilizzare a vantaggio personale o di terzi le informazioni in tal modo acquisite, pena la responsabilità di cui all’ultimo comma dell’art. 2391, c.c.

 

(1) La necessità che i singoli amministratori agiscano e deliberino «con cognizione di causa» è espressa altresì, in relazione alle società quotate, dal Codice di autodisciplina di Borsa italiana s.p.a. (Principio 1.P.2.).

(2) In senso conforme v. Chiappetta, 135 ss. (libro), CALVOSA Sui poteri individuali dell’amministratore, in AA.VV., Amministrazione e controllo nel diritto delle società – Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, p. 362 e ss. (ma v. p. 376 ove si ammette un protere individuale di informazione qualora il singolo amministratore ritenga probabile l’evento dannoso sulla base di informazioni in qualche modo acquisite//; GIANNELLI, Poteri di controllo degli amministratori non esecutivi, in L’attività gestoria nelle società di capitali – Profili di diritto societario italiano e spagnolo a confronto, a cura di Sarcina e Garcia Cruces, Bari, 2010, p. 219 e ss.; TOMBARI, Problemi in tema di alienazione della partecipazione azionaria e attività di due diligence, in BBTC, 2008, I, p. 68; ZAMPERETTI, Il dovere di informazione degli amministratori nella governance della società per azioni, Milano, 2005, p. 336 e ss.; MONTALENTI, sub art. 2381, in Il nuovo diritto societario, commentario diretto da Cottino ed altri, Bologna, 2004, p. 682. Contra cfr. LIBONATI, Noterelle a margine dei nuovi sistemi di amministrazione della società per azioni, in Riv. soc., 2008, p. 303 e ss. (il potere del singolo amministratore di chiedere in cda informazioni al delegato completa e si aggiunge al potere individuale di ispezione controllo che ogni amministratore ha : v. p. 305); BARACHINI, La gestione delegata nella società per azioni, Torino, 2008, p. 144 e ss. adde salafia in le società 2006, 292.

(3) In tal senso cfr. CALVOSA, cit., p. 363; BARACHINI, cit., p. 155 e ss.

(4) In senso conforme v. CALVOSA, cit., p. 362 e ss.; GIANNELLI, cit., p. 219 e ss.; TOMBARI, op. cit., p. 68; ABBADESSA, Profili topici della nuova disciplina della delega amministrativa, in Il nuovo diritto societario – Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, 2, Torino, 2006, p. 506; ZAMPERETTI, op. cit., p. 339 e ss.; MONTALENTI, op. cit., p. 682. Contra v., ancora, LIBONATI, op. cit., p. 303 e ss.

(5) CALVOSA, op. cit., p. 363.

(6) In tal senso v. ABBADESSA, op. cit., p. 507; ZAMPERETTI, op. cit., p. 340.

 

RIDUZIONE DEL CAPITALE E OBBLIGAZIONI.

1. Agli effetti dell’applicazione del primo comma dell’art.2413 c.c. è “volontaria” la riduzione del capitale sociale destinata ad attuarsi in via reale mediante rimborso del capitale sociale o mediante liberazione dei soci dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti.


2. Ogni fattispecie di riduzione solo “nominale” del capitale sociale è soggetta alla disciplina del secondo comma dell’art.2413 c.c., poiché il rapporto fra poste del patrimonio netto indicate nell’art.2412 c.c. e ammontare delle obbligazioni in circolazione è calcolato prendendo in considerazione il valore delle prime al netto delle perdite.

3. E’ pertanto legittima, in pendenza di un prestito obbligazionario, la riduzione del capitale sociale per perdite deliberata in assenza dei presupposti che la rendono “obbligatoria” ex art.2446.4 c.c.. E’ legittima altresì, in quanto meramente nominale, la riduzione del capitale sociale effetto di operazioni di fusione (ma non di scissione).

1. A norma dell’art.2412, primo comma, c.c. la società non può emettere obbligazioni per somma eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato.
Essendo prescritto a tutela degli obbligazionisti, il rapporto evidenziato fra mezzi propri (o capitale di rischio) e capitale di credito incorporato in obbligazioni deve permanere nel corso della vita della società (1).

A tal fine, l’art.2413 primo comma c.c., con un intento chiaramente antielusivo, stabilisce che in pendenza del prestito obbligazionario la società “non può ridurre volontariamente il capitale sociale o distribuire riserve” se per effetto di tali operazioni il valore nominale delle obbligazioni ancora in circolazione eccede il doppio del valore delle poste del patrimonio netto elencate nell’art.2412 c.c.. Se tuttavia la riduzione del capitale sociale è obbligatoria, o se le riserve diminuiscono in conseguenza di perdite, il secondo comma dell’art.2413 c.c. vieta la distribuzione degli utili finché  “l’ammontare della riserva legale e delle riserve disponibili non eguagli la metà dell’ammontare delle obbligazioni in circolazione”, ossia finché non è ripristinato il rapporto imposto dal primo comma dell’art.2412 c.c. rispetto alle obbligazioni ancora in circolazione.

2. La disciplina dell’art.2413 c.c. è incardinata sulla distinzione fra ipotesi di riduzione “volontaria” e ipotesi di riduzione “obbligatoria” del capitale sociale (2). 
L’applicabilità di diversi regimi presuppone quindi l’identificazione delle fattispecie di riduzione del capitale sociale che ne costituiscono il rispettivo presupposto.

In tale prospettiva, se l’antitesi letterale fra primo e secondo comma induce parte degli interpreti a qualificare come “volontaria” ogni ipotesi di riduzione del capitale sociale che non sia “obbligatoria” per legge, senza possibilità di distinguere fra “reale” e “per perdite” (3), la lettura complessiva del sistema sembra suggerire la diversa conclusione per cui, agli effetti del divieto (relativo) del primo comma, la riduzione del capitale è “volontaria” solo qualora sia destinata ad attuarsi mediante riduzione reale del patrimonio netto (ossia mediante rimborso ai soci degli apporti di mezzi propri già eseguiti o mediante liberazione degli dall’obbligo di eseguire quelli ancora dovuti) (4); qualora, invece, sia solo “nominale” dovrà applicarsi, in via estensiva, la disciplina del secondo comma del medesimo art. 2413 c.c..

Alla tesi proposta consegue che, in pendenza di un prestito obbligazionario, è legittimo deliberare la riduzione del capitale per perdite, anche se viene meno il rapporto fissato nel primo comma dell’art.2412 c.c., sia qualora le perdite non eccedano il terzo del capitale sociale, sia qualora, pur essendo eccedenti il terzo, è ancora legalmente possibile adottare opportuni provvedimenti a mente dell’art.2446 c.c. (5).

3. A sostegno della conclusione avanzata sembra significativa l’assimilazione operata quoad effectum fra riduzione del capitale e distribuzione/diminuzione delle riserve: scelta normativa imposta dal novellato primo comma dell’art.2412 c.c., che consente di conteggiare anche alcune riserve ai fini del calcolo del limite quantitativo di emissione del prestito obbligazionario. 
Alla stregua di tale constatazione si rileva, innanzitutto, che il divieto di cui al primo comma dell’art.2413 c.c. si applica indistintamente alla distribuzione delle riserve ed alla riduzione del capitale.

Nella medesima prospettiva giova anche evidenziare la tesi per la quale l’illegittimità della riduzione del capitale ai sensi dell’art. 2445 c.c. dipende dalla tecnica di attuazione.
Se, nei limiti indicati dalla legge, è vietata qualora voglia essere eseguita mediante rimborso dei conferimenti o liberazione dall’obbligo di eseguire quelli tuttora dovuti, si ritiene di contro legittima se si realizza mediante imputazione in misura equivalente a riserva, anche disponibile, poiché il risultato è neutrale agli effetti del primo comma dell’art.2412 c.c. (6), che dimostra indifferenza per la composizione qualitativa del patrimonio netto.

Si ammette, dunque, la legittimità della riduzione del capitale sociale, ex art.2445 c.c., allorché, per la tecnica di esecuzione adottata, non muti l’ammontare complessivo delle poste di patrimonio netto prese in considerazione nell’art.2412 c.c..
Il ricavo interpretativo che ne consegue può essere cosi sintetizzato: agli effetti dell’applicazione della disciplina degli artt. 2412 e (quindi) 2413 c.c.. i) la cifra del capitale sociale non rappresenta un dato di per sé solo determinante, in quanto rileva l’ammontare complessivo delle poste di patrimonio netto specificate nell’art.2412 c.c.; pertanto ii) dette poste risultano fungibili fra loro, e iii) sono quindi soggette ad unico regime a prescindere dalla qualificazione e dalla disciplina tipica di ognuna di esse.

4. Le valutazioni proposte sembrano trovare conferma anche nell’interpretazione del presupposto applicativo della disciplina del secondo comma dell’art.2413 c.c..
Ai sensi di quest’ultima norma, se a causa della diminuzione delle riserve per perdite viene meno il rapporto minimo legale fra “mezzi propri” e obbligazioni in circolazione, sorge il divieto di distribuzione degli utili.

Se anche il capitale sociale resta integro, l’incidenza delle perdite sulle riserve può “far scattare” l’applicazione del divieto di distribuzione degli utili. (7) Come noto, le perdite intaccano il capitale sociale solo quando il valore effettivo del patrimonio netto è inferiore al valore nominale del capitale sociale stesso (8). Qualora il patrimonio netto fosse composto, oltre che dal capitale sociale, da riserve, le perdite incidono in primis su queste ultime.
Il dato normativo dimostra che anche agli effetti dell’applicazione del divieto di distribuzione degli utili si tiene conto del valore complessivo del patrimonio netto contabile formato dalle poste indicate nell’art.2412 c.c. (dunque dell’ammontare delle poste del patrimonio netto indicate nell’art.2412 c.c. al netto delle perdite) e pertanto non assume rilevanza autonoma la “cifra” del capitale sociale indicata nello statuto.

La “riduzione” delle riserve diminuite a causa delle perdite è un fatto contabile, che non richiede alcuna deliberazione assembleare (9), e la sua attuazione nelle scritture contabili non interferisce minimamente sull’applicazione del divieto di distribuzione dell’utile sancito nel secondo comma dell’art.2413 c.c.

L’assimilazione operata quoad effectum fra riserve e capitale suggerisce la conclusione che anche l’operazione di adeguamento della cifra del capitale sociale alla misura effettiva dello stesso (cioè al netto delle perdite) sia non influente agli effetti della disciplina in esame e quindi legittima, perché sostanzialmente equivalente all’operazione compiuta sulle riserve (10).

5. Ulteriormente, è tesi condivisa che, pur nel silenzio della norma del primo comma dell’art.2412 c.c., al momento dell’emissione delle obbligazione si debba tener conto dell’ammontare “esistente” del capitale sociale (e delle riserve) (11), cioè al netto delle perdite già contabilmente rilevate, stante il disposto dell’art.2413 c.c..
Ne deriva che, se al momento dell’emissione delle obbligazioni il capitale sociale nominale fosse superiore al capitale sociale “esistente”, e pertanto il rapporto imposto dal primo comma dell’art.2412 c.c. fosse stato calcolato sulla base del secondo parametro (capitale esistente), alla stregua di quanto previsto anche dalla legge prima della riforma, nulla osterebbe ad una riduzione del capitale solo nominale, anche se “non obbligatoria”, successivamente all’emissione, entro i limiti del capitale esistente sulla base del quale è stato calcolato il rapporto, poiché, come ribadito, il valore nominale del capitale sociale non ha rappresentato un dato rilevante nella prognosi richiesta dal primo comma dell’art.2412 c.c..

Allo stesso modo, in pendenza del prestito obbligazionario ed in caso di perdita sopravvenuta, la riduzione nominale del capitale non fa altro che adeguare la cifra statutaria al valore esistente, che è e resta l’unico dato tenuto in considerazione agli effetti dell’applicazione del secondo comma dell’art.2413, come dimostra il riferimento espresso alle riserve.

6. Alla luce delle argomentazioni che si è ritenuto di proporre, la conservazione della misura originaria del capitale sociale non sembra creare alcun margine di tutela ulteriore per gli obbligazionisti nella prospettiva in cui si pone l’art.2413c.c..
Stante in particolare la disciplina del secondo comma, la possibilità di asserire la ricorrenza di un divieto di ridurre il capitale sociale per perdite laddove non sia obbligatorio per legge non sembra plausibile nemmeno invocando il disposto del terzo comma dell’art.2433 c.c., ai sensi del quale “se si verifica una perdita del capitale sociale, non può farsi luogo a ripartizione di utili fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente”.

Infatti, come prima evidenziato, agli effetti dell’applicazione dell’art.2413 c.c. la cifra del capitale sociale è indifferente (a differenza di quanto previsto ai fini dell’applicazione dell’art.2433 terzo comma c.c.): se anche fosse ridotta in presenza di perdite non potrebbe farsi luogo a ripartizione di utili a mente dell’art.2433 c.c. perché il parametro di riferimento è rappresentato dall’ammontare del patrimonio netto rapportato all’ammontare delle obbligazioni in circolazione.

Cosicché:
a) se il capitale sociale “esistente” (cioè al netto delle perdite) non eguagli la metà dell’ammontare delle obbligazioni in circolazione non si potrà far luogo a distribuzione dell’utile a prescindere da quanto previsto nel terzo comma dell’art.2433 c.c.;

b) qualora il capitale sociale “esistente” sia almeno pari alla metà dell’ammontare delle obbligazioni in circolazione non si potrà far luogo a ripartizione degli utili ai sensi dell’art. 2433 terzo comma c.c. se la cifra del capitale sociale non è ridotta.

La norma speciale dell’art.2413 c.c. prevale sulla norma generale dell’art.2433 c.c. e pertanto rende irrilevante la riduzione nominale del capitale sociale ai fini della distribuzione degli utili, che sarà sempre vietata finchè non è ripristinato il rapporto previsto dalla legge con l’ammontare delle obbligazioni in circolazione.

In un’ottica applicativa ed alla luce dei rilievi fin qui proposti, giova forse avvertire che, in pendenza di un prestito obbligazionario, l’esecuzione di un aumento del capitale sociale conseguente alla riduzione per perdite, anche se deliberato ai sensi dell’art.2447 c.c. (compresa l’ipotesi di azzeramento), non comporta l’automatica facoltà di distribuzione successiva degli utili, poiché il rapporto di cui al primo comma dell’art.2412 c.c. è calcolato sull’entità delle poste del patrimonio netto rappresentative di mezzi propri comunque denominate, ragion per cui l’ammontare del capitale sociale ricostituito potrebbe risultare insufficiente a ripristinare il rapporto suddetto qualora le perdite avessero, in prima battuta, assorbito integralmente le riserve prima esistenti. Tale situazione potrebbe generare un problema di informativa di terzi sottoscrittori dell’aumento di capitale, soprattutto se quest’ultimo sia scindibile e non vi sia certezza della sufficienza di quanto sottoscritto a ripristinare il rapporto patrimoniale con le obbligazioni in circolazione (12).

7. Un’ulteriore ipotesi applicativa rilevante agli effetti dell’applicazione dell’art.2413 c.c. riguarda le operazioni di fusione o di scissione coinvolgenti società che hanno emesso prestiti obbligazionari (13).
Potrebbe accadere, infatti, che a seguito delle operazioni citate l’ammontare delle obbligazioni in circolazione non risulti compreso nei limiti del doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili della società incorporante o della società risultante dalla fusione o della società, beneficiaria o scissa a cui il prestito sia assegnato (14).

La disciplina dell’art.2413 c.c. sembra comportare la necessità che la parte del patrimonio netto post fusione o post scissione composta dalle voci indicate nell’art.2412 c.c. sia di entità tale da garantire la conservazione del rapporto fra mezzi propri e obbligazioni in circolazione sancito dalla norma da ultimo richiamata.

La riduzione del patrimonio netto che sia eventualmente effetto della fusione o della scissione potrebbe prestarsi ad essere qualificata come “volontaria”, e, in quanto tale, vietata15. A nulla potrebbe valere, in proposito, il diritto di opposizione, poiché risulta pacificamente irrilevante anche rispetto alla fattispecie contemplata nell’art.2445 c.c. (16).

Rispetto alla fusione sembra possibile pervenire ad una diversa conclusione.
 Infatti, se si condivide la tesi per quale il presupposto applicativo delle diverse discipline del primo e del secondo comma dell’art.2413 c.c. risiede non tanto nel carattere, volontario o coatto, bensì nell’effetto, reale o contabile, della riduzione del capitale sociale, ne deriva che la riduzione del capitale medesimo effetto di un’operazione di fusione non può essere considerata vietata a mente del primo comma dell’art. 2413 c.c., ma comporta “solo” il divieto di distribuzione dell’utile ai sensi del secondo comma, in quanto ha natura nominale (17).
In caso di scissione, invece, la medesima conclusione può essere proposta solo qualora il rapporto fra le poste del patrimonio netto elencate nell’art.2412 (capitale compreso) e le obbligazioni emesse permanga invariato, a prescindere dal fatto che ciò si verifichi nella scissa o nella beneficiaria (18).
Qualora, al contrario, per effetto della scissione detto rapporto non risulti più rispettato, l’operazione deve ritenersi vietata a mente del primo comma dell’art.2413 c.c., che vieta la “sottrazione” delle poste del patrimonio netto indicate nell’art.2412 e che pertanto esclude dalla disponibilità dei soci (e degli stessi obbligazionisti mediante l’astensione dall’opposizione di cui all’art. 2503) l’alterazione peggiorativa del rapporto fra riserve e capitale da una parte e obbligazioni in circolazione dall’altra.

8. Il divieto enunciato dal primo comma dell’art. 2413 c.c. trova applicazione soltanto nei confronti di deliberazioni assembleari (siano esse di riduzione del capitale o di distribuzione di riserve) che determinano la riduzione di quel patrimonio netto che, ai sensi dell’art. 2412 c.c., funge da parametro per la determinazione dell’ammontare del prestito obbligazionario.

Non trova invece applicazione per le deliberazioni che non incidono sulle voci del patrimonio netto richiamate dall’art. 2412 c.c., ma prendono semplicemente atto della già avvenuta riduzione dello stesso (riduzione del capitale per perdite deliberata volontariamente in presenza di un patrimonio netto pari o superiore ai due terzi del capitale sociale, riduzione del capitale per perdite deliberata volontariamente in sede di assemblea convocata senza indugio ai sensi del primo comma dell’art. 2446 c.c., riduzione del capitale deliberata obbligatoriamente ai sensi del secondo comma dell’art. 2446 c.c. o dell’art. 2447 c.c.).

In tutte queste ipotesi troverà applicazione il secondo comma dell’art. 2413 c.c.
Qualora infine la riduzione reale del capitale sociale sia volontariamente deliberata mediante imputazione a riserva, non troverà applicazione né la prima, né la seconda disposizione, posto che non si verifica alcuna riduzione del patrimonio netto e gli obbligazionisti trovano adeguata tutela (oltre che nell’opposizione alla riduzione ex art. 2445 c.c.) nel limite alla successiva eventuale distribuzione delle riserve enunciata dallo stesso primo comma dell’art. 2413 c.c..

(1) In tal senso si esprime l’orientamento assolutamente dominate, secondo il quale la funzione del limite di cui al primo comma dell’art.2412 deve essere ricercata nell’esigenza di “bilanciare le forme di raccolta (azioni – obbligazioni), onde evitare che società sottocapitalizzate operassero avvalendosi prevalentemente di risorse finanziarie reperite, a titolo di prestito, presso il pubblico dei risparmiatori”. Si vedano in proposito P.Ferro-Luzzi – F.Chiappetta, Fusione e prestiti obbligazionari, Riv. Soc., 2005, p.144, ove ampi riferimenti dottrinali; per la medesima dottrina “tale imposizione sembra rispondere, ovunque trovi applicazione, alla finalità di evitare che, attraverso un frequente ed ingente ricorso a modalità di finanziamento diverse dalla emissione di capitale ordinario, si determini una crescita eccessiva dei poteri di governo degli azionisti ordinari rispetto agli altri finanziatori dell’impresa, i quali restano estranei al governo societario”: P.Ferro-Luzzi – F.Chiappetta, op.cit., p.145.In tal senso anche F. Chiappetta, Finanziamento della società per azioni e interesse sociale, in Riv. Soc., 2006, p.690.

(2) A. Giannelli, sub art.2413, in Commentario alla riforma del diritto societario, a cura di M. Notari e L.A. Bianchi, Milano, 2006, p.144.

(3) Da ultimo, in tal senso, A. Giannelli, op.cit., p.150. Si ricorda che storicamente parte della dottrina, sebbene minoritaria, riteneva che ogni ipotesi di riduzione del capitale sociale non imposta dalla legge, anche se per perdite, fosse da qualificare volontaria e come tale soggetta alla disciplina dell’art.2445 c.c.. Così Fenghi, La riduzione del capitale,Milano, 1974, p.68; in senso contrario R. Nobili – M.S. Spolidoro, La riduzione del capitale, in Trattato delle Società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 1993, p.332, ove ampi riferimenti dottrinali.

(4) In tal senso anche P.Ferro-Luzzi – F. Chiappetta, op.cit., p.148, secondo i quali “ciò che distingue le due fattispecie di riduzione di cui all’art.2413 e che giustifica la diversità di disciplina, non è il carattere volontario ovvero obbligatorio dell’operazione cui consegue la riduzione del capitale sociale, ma la natura reale o nominale della riduzione stessa”.
5 Contra: A. Giannelli, op.cit., p. 150; R. Cavallo Borgia, Società per azioni, Delle obbligazioni, in Commentario del Codice Civile Scialoja – Branca, Bologna Roma, 2005,p.118; P.Marchetti, Le obbligazioni, in Il nuovo ordinamento delle società, a cura di S.Rossi, Milano, 2003, p.221, ma limitatamente all’ipotesi di perdenti non eccedenti il terzo del capitale e non comprendendo quindi nel divieto l’ipotesi della riduzione del capitale per perdite superiori al terzo assunta senza adottare preventivamente gli opportuni provvedimenti, fattispecie quest’ultima, da ricondursi quindi al secondo comma dell’art.2413..

(6) In tal senso anche A. Giannelli, op.cit., p.2413.

(7) Verificandosi tale circostanza, la legge, non potendo imporre conferimenti diretti ai soci, costringe all’apporto indiretto di capitale di rischio sotto forma di accantonamento forzato degli utili futuri nella misura necessaria a ripristinare il rapporto patrimoniale sancito nel primo comma dell’art.2412 c.c.

(8) R.Nobili – M.S. Spolidoro, op.cit., p.285,per i quali “si ha perdita del capitale sociale quando il valore del patrimonio netto della s.p.a. è inferiore al capitale sociale stesso”; G.E. Colombo, Il bilancio di esercizio, in Trattato delle Società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 1994, p.510.

(9) Si veda in proposito G.E. Colombo, op.cit, p.509, per il quale “costituendo parte del “netto patrimoniale” le riserve sono destinate ad essere intaccate da qualsivolglia evento che comporti una diminuzione del patrimonio della società, quindi dalle perdite”, e il netto si riduce automaticamente, non per effetto di un’ipotetica deliberazione assembleare. Cfr. P. Marchetti, op.cit., p.222.

(10) Un esempio numerico varrà forse a meglio chiarire il concetto. Si immagini una società con capitale sociale (esistente) di 80 e riserve (indicate nell’art.2412 primo comma) per 20 (totale 100). La stessa società emette un prestito obbligazionario per 200.
Si ipotizzi un’ altra società con capitale sociale (esistente) di 100 (e priva di riserve). La società emette un prestito obbligazionario per 200.

Entrambe le società sono gravate da perdite sopravvenute per 20. La prima società potrà contabilmente elidere le riserve (e le perdite), così che il suo patrimonio netto risulterà con il solo capitale di 80, ed obbligazioni emesse per 200. Tale società non potrà distribuire utile.
La seconda società presenterà un netto costituito da capitale di 100 e perdite di (20). Il capitale sociale effettivo è 80, le obbligazioni emesse per 200. Alla stregua di quanto visto per il caso di riserve diminuite per effetto di perdite, anche nella circostanza di potrà procedere all’adeguamento di quella componente del patrimonio netto denominata capitale all’ammontare esistente, cioè a 80, in quanto agli effetti della disciplina dell’art.2413 vi è completa assimilazione fra le varie poste componenti il patrimonio netto. Anche in questo caso, e pur a seguito della riduzione del capitale sociale, non si potrà procedere a distribuzione dell’utile.

(11) Prima della riforma, per tutti, G.F. Campobasso, op.cit,., p.398; dopo la riforma, R. Cavallo Borgia, op.cit., p.97; A. Giannelli, op.cit., p.93; L. Pisani, Le obbligazioni, in Il nuovo diritto societario, Liber Amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P.Abbadessa e G.B. Portale, Torino, 2006, p.789.

(12) Problema acuito dall’impossibilità di desumere dal Registro delle Imprese l’ammontare delle obbligazioni in circolazione, mentre la ricorrenza di un prestito obbligazionario si può rilevare solo dalla visura storica.

(13) Sul tema, diffusamente, P.Ferro Luzzi – F.Chiappetta, Fusione e prestiti obbligazionari di società per azioni, in Riv. Soc., 2005, p.133 e ss.

(14) Cfr. P.Ferro Luzzi – F. Chiappetta, cit., p.140, ove sono rintracciabili altri casi concreti.

(15) A. Giannelli, op.cit., p.154.

(16) A. Giannelli, op.cit., p.154; P.Ferro Luzzi – F. Chiappetta, op.cit., p.142.

(17) La dottrina segnala che in particolare “l’adeguatezza di tale soluzione appare con maggior risalto nell’ipotesi di non capienza generata dalla fusione servita dalla redistribuzione del capitale della società incorporante o risultane dalla fusione stessa. E’particolarmente evidente, in tal caso, che il patrimonio complessivo resta intatto ed il capitali diminuisce soltanto per una particolare tecnica di redistribuzione, appunto, del capitale sociale”. P.Ferro Luzzi – F. Chiappetta, cit., p.148.

(18) Può essere il caso di prestito obbligazionario assegnato alla beneficiaria con una quota di patrimonio netto congrua. Mi pare che il problema non si ponga qualora la società beneficiaria sia preesistente e il suo patrimonio netto, aumentato di quella parte di patrimonio netto della scissa ad essa assegnato, sia tale da consentire il mantenimento del rapporto prescritto nell’art.2412.

 

TRASFORMAZIONE (FUSIONE E SCISSIONE) DI S.P.A. CHE HA EMESSO OBBLIGAZIONI IN S.R.L. 

Una s.p.a. che ha emesso obbligazioni può trasformarsi in (partecipare ad una fusione la cui risultante sia una/scindersi dando luogo ad una) società a responsabilità limitata anche senza estinguere o novare il prestito obbligazionario, purché lo statuto della società trasformata preveda la possibilità di emettere titoli di debito e, alternativamente:

a) le obbligazioni siano state emesse ai sensi dell’articolo 2412, comma secondo, c.c., (in misura eccedente i limiti di cui al primo comma del medesimo articolo ma siano desti- nate alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali) ed i soci-obbligazionisti, ove presenti, abbiano presta- to il loro consenso;

b) un soggetto avente le caratteristiche dell’investitore professionale presti una garanzia fideiussoria in ordine alla solvenza della società trasformata avente le caratteristiche di cui all’articolo 2483 c.c..

1) La fattispecie ed il quesito.
 La possibilità per una società per azioni che avesse emesso obbligazioni di trasformarsi in

una società a responsabilità limitata era, prima della riforma, sostanzialmente preclusa. La dottrina assolutamente prevalente negava l’ammissibilità dell’operazione ed una nota sentenza della Cassazione aveva addirittura sancito la nullità della trasformazione per violazione di norme imperative (1).

L’operazione poteva sfuggire alle censure solo in due particolari ipotesi:

a) estinzione del prestito attraverso il rimborso anticipato, se previsto dal regolamento di e- missione od accettato dall’assemblea degli obbligazionisti;

b) novazione soggettiva (offerta di obbligazioni di altra società legittimata all’emissione) od oggettiva (conversione in finanziamento ordinario) del prestito, in ordine alla quale si dubitava ulteriormente se per concedere il nulla osta fosse legittimata l’assemblea degli obbligazionisti o servisse invece il consenso unanime di questi ultimi.

In realtà poteva prospettarsi anche una terza ipotesi, nel caso di prestito obbligazionario convertibile, che, per quanto più complessa, lasciava spazio ad un’applicazione delle norme in materia di fusione e scissione, configurando la possibilità di conversione anticipata del prestito quale strumento idoneo a permettere la trasformazione della società emittente (2).

Il quadro odierno suggerisce una riconsiderazione del problema (3), in quanto l’introduzione della figura dei titoli di debito e le loro notevoli affinità con il titolo obbligazionario, sia dal punto di vista della struttura sia delle caratteristiche circolatorie, aprono differenti prospettive: in particolare il regime circolatorio delle due forme di finanziamento riservate l’una – le obbligazioni – solo alla s.p.a. e l’altra – i titoli di debito – anche alla s.r.l. non è del tutto identico, ma diventa molto simi- le in talune circostanze, al punto che “si ridimensiona, ma non si elimina affatto, il problema della ammissibilità della trasformazione di s.p.a. che abbia in circolazione obbligazioni in società a responsabilità limitata” (4).

2) La soluzione.
Dal mutato quadro normativo emergono in particolare due nuove ipotesi di soluzione della questione, che si aggiungono alle preesistenti e meritano alcuni approfondimenti che saranno brevemente sviluppati:

a) il caso in cui le obbligazioni siano state emesse ai sensi dell’articolo 2412, comma secondo, c.c., (in misura eccedente i limiti di cui al primo comma del medesimo articolo ma siano destinate alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali) ed i soci-obbligazionisti, ove presenti, abbiano prestato il loro consenso;

b) il caso in cui un soggetto avente le caratteristiche dell’investitore professionale presti una garanzia fideiussoria in ordine alla solvenza della società trasformata avente le caratteristiche di cui all’articolo 2483 c.c.

3) La motivazione della soluzione a)
La prima ipotesi (5) muove dalla considerazione che il titolo di debito della s.r.l. può avere tutte le caratteristiche strutturali dell’obbligazione emessa dalla s.p.a.: l’unico gap attinente al regime circolatorio, secondo cui il primo può essere sottoscritto solo da un investitore professionale soggetto a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali e può successivamente circolare in quanto chi lo trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali o soci della società, sembra colmato proprio dalla previsione del secondo comma dell’art. 2412 c.c., che introduce un regime di sottoscrivibilità e garanzia della successiva circolazione delle obbligazioni emesse eccedendo i limiti di legge analogo a quello appena descritto.

L’affermazione secondo cui, ove le obbligazioni fossero state emesse ai sensi dell’articolo 2412, comma secondo, c.c., la trasformazione non comporterebbe alcun problema, necessita però di alcune precisazioni.

In primis lo statuto della s.r.l. dovrà prevedere, ex art. 2483 c.c., la possibilità di emettere titoli di debito, ma tale circostanza riguarda più un’accortezza redazionale dell’atto che non un’esigenza peculiare di questa specifica ipotesi, essendo un dato comune a tutte le fattispecie oggetto di queste brevi note. Allo stesso modo, lo statuto della s.r.l. dovrà disciplinare ampiamente e dettagliatamente, tenendo conto delle caratteristiche dei titoli emessi originariamente dalla s.p.a., i limiti e le modalità di emissione e circolazione, l’organo competente per eventuali modificazioni, i quorum deliberativi e, non ultime, dovrà dettare le caratteristiche dell’organizzazione dei portatori di titoli di debito, mancando ogni forma di disciplina legale (6).

L’apparente equivalenza – sottoscrivibilità del titolo e garanzia ex lege sulla sua successiva circolazione – attiene peraltro solo alla quota di obbligazioni emesse in eccedenza rispetto alle soglie dell’art. 2412, comma primo, c.c.: l’aliquota emessa nel rispetto dei limiti legali, infatti, non gode del particolare regime circolatorio previsto dal comma secondo, non può essere equiparata sotto tale profilo ai titoli di debito e deve trovare, in caso di trasformazione della società, una soluzione tra quelle storicamente individuate, da un lato, e quella proposta al punto b) di questo orientamento, dall’altro.

Questo in linea teorica, perché se si riflette sulle effettive caratteristiche del prestito obbligazionario in “esubero” ai sensi del secondo comma dell’articolo 2412, probabilmente si dovrà convenire con le conclusioni di un’attenta dottrina (7), secondo cui difficilmente potrà verificarsi un’emissione che in parte rispetti i limiti ed in parte li superi: si porrebbe infatti, forse sin dal momento del collocamento e sicuramente nella successiva circolazione sul mercato secondario, un rilevante problema di riconoscibilità dei titoli “garantiti” dall’investitore professionale rispetto a quelli emessi entro i limiti. In mancanza di soluzioni certe, tanto per le obbligazioni dematerializzate quanto per quelle incorporate in un titolo cartaceo, e non potendosi ricavare l’invalidità di un’emissione così strutturata da una norma che al contrario vuole espressamente legittimarla, si dovrebbe probabilmente concludere che l’intera emissione debba essere garantita dalla speciale responsabilità sulla solvenza dell’emittente.

Ma vi è un ulteriore aspetto che merita alcune considerazioni. La garanzia dell’investitore professionale sulla solvenza dell’emittente contemplata dall’art. 2412, comma secondo, non è esattamente identica a quella dell’art. 2483 e, pur operando in modo analogo, secondo quanto sostiene la dottrina unanime, si estende ad un arco di soggetti più limitato: nella s.r.l., infatti, il socio acquirente di titoli di debito perde tale beneficio e non gode di alcuna “copertura” in caso di default dell’emittente.

La previsione è condivisibile e la sua ratio ben si può cogliere nel contesto più personalistico di tale tipo societario, che legittima la presunzione di una più profonda conoscenza del complessivo equilibrio finanziario della società da parte del socio (8). Ma tale logica entra in crisi quando si confronta con la trasformazione regressiva: l’ex socio di s.p.a., infatti, nel momento in cui ha sotto- scritto obbligazioni della sua società eccedenti il limite di legge, era protetto da una previsione di legge che gli garantiva la solvenza della società a prescindere dalla sua qualità di socio e proprio tale tutela viene meno con la trasformazione in s.r.l., se non sono introdotti correttivi negoziali specifici. Si verifica cioè un netto peggioramento delle caratteristiche della garanzia del finanziamento, che il titolare potrebbe vedere deteriorarsi in quanto socio, perché costretto a subire la deliberazione della maggioranza sulla trasformazione, ma non può tollerare in quanto obbligazionista, senza aver prestato alcuno specifico consenso od aver riscontrato l’introduzione di correttivi al riguardo (9).

Il problema si pone, peraltro, solo per il socio-obbligazionista che non ha approvato la trasformazione, perché chi acquista i titoli di debito post trasformazione non solo non può subire alcun peggioramento della qualità del proprio credito, ma principalmente agisce in modo consapevole; conscio cioè che quei titoli di debito, conformemente alla disciplina ex art. 2483, non sono coperti da alcuna garanzia ex lege se di proprietà di un socio.

In questo caso, quindi, emerge la necessità di valutare l’opportunità/necessità di una delibera dell’assemblea degli obbligazionisti ai sensi dell’art. 2415, comma 1, n. 5, se non addirittura di un consenso individuale dei singoli obbligazionisti.

In una prospettiva di più ampio respiro, da un lato si potrebbe argomentare che il loro consenso sia indispensabile in quanto essi “perdono” le garanzie offerte dal tipo societario s.p.a. in termini di entità del capitale minimo – superiore alla s.r.l. – e di controlli – obbligatorietà del collegio sindacale -; ma dall’altro la sussistenza di una garanzia ex lege prestata da un soggetto qualificato – inderogabile nella s.r.l. – rende più sfumati questi profili, assolutamente rilevanti invece nel caso di emissione “ordinarie” e non garantite.

Analoghe considerazioni giustificano l’assenza nella s.r.l. dei limiti legali all’indebitamento di cui all’art. 2412 c.c. (10): il maggiore rischio finanziario derivante dalla accresciuta capacità di chiedere risorse conseguente al mutamento tipologico della società debitrice è, infatti, più che compensato e sostanzialmente neutralizzato dalla presenza della garanzia di legge sulla solvenza dell’emittente, che prescinde dall’entità del debito stesso.

Pertanto, per quanto ad un primo sommario esame la posizione dell’obbligazionista non appaia lesa – il titolo di debito mantiene le medesime regole circolatorie, le stesse caratteristiche in ordine ai tempi e modi del rimborso, nonché identica remunerazione (11) -, nel caso prospettato, quando cioè l’obbligazionista è anche azionista, egli perde, come riflesso della trasformazione, una garanzia che prima assisteva la sua posizione.

Per concludere sul punto, sembra quindi che non si possa deliberare la trasformazione regressiva in presenza di azionisti/obbligazionisti:

i)  se il regolamento del prestito non lo prevede, in tal caso non ponendosi alcun problema di tutela del singolo; 
od in alternativa

ii)  senza averli “consultati”. Ed in questo caso la qualificazione del mutamento delle garanzie che assistono il prestito tra le “modificazioni delle condizioni del prestito”, come tali di competenza dell’assemblea degli obbligazionisti, rimane una questione molto incerta (12) e non modificata dalla riforma societaria, al punto che si consiglia prudenza nel giudizio omologatorio.

4) La motivazione della soluzione b)
 Si può invece più agevolmente giungere ad una conclusione positiva ed innovativa percorrendo la strada indicata al punto b) della massima.

Prima, però, pare opportuno dare conto di due tradizionali opinioni dottrinali, favorevoli alla trasformazione in esame senza alcun particolare correttivo ma rimaste sostanzialmente isolate che, nel mutato quadro normativo, continuano a non offrire argomenti decisivi per la soluzione della questione.

La prima13 fondava la soluzione positiva sull’interpretazione “letterale” del divieto di “emissione” previsto dal previgente art. 2486, comma terzo, c.c., che doveva intendersi riferito al momento genetico del prestito e non alle successive vicende che interessavano la società emittente, la cui libertà, anche di deliberare operazioni straordinarie, non poteva essere compressa se non da espressi limiti di legge; la seconda (14) ammetteva la trasformazione solo nella particolare situazione di cui all’art. 2447 c.c. allorquando, al fine di evitare lo scioglimento della società, si poteva “tollerare” un’operazione altrimenti vietata dalla legge.

Oltre alle specifiche motivazioni che già prima della riforma consigliavano una diversa soluzione (15), le tesi paiono ancora oggi non condivisibili tout court poiché, se applicate, permetterebbero l’”assunzione” da parte della s.r.l. di un prestito obbligazionario di una s.p.a. e creerebbero conseguentemente una duplice categoria di titoli di debito: quelli emessi ab origine da una s.r.l., soggetti alla disciplina di cui all’art. 2483 c.c.; quelli “assunti”, relativi ad ex obbligazioni di s.p.a., che alla stessa – che appare di natura imperativa in quanto posta a tutela dei terzi (16) – sfuggirebbero con inaccettabili ripercussioni sul loro regime circolatorio.

La soluzione innovativa, che sembra pienamente rispettosa di tutte le istanze emerse nelle brevi note precedenti, è invece quella di introdurre, in sede di trasformazione, un elemento di garanzia fornito proprio da un investitore professionale soggetto a vigilanza: una fideiussione, cioè, che dovrebbe avere le caratteristiche richieste dall’articolo 2483 c.c. e quindi garantire la solvenza della società a tutela degli assegnatari dei titoli di debito emessi in sostituzione delle obbligazioni (17). Così cadrebbe quella obiezione legata alla creazione di una sorta di “doppio regime” di circolazione dei titoli di debito, che distingue tra quelli che godono ab origine – in quanto emessi da una s.r.l. – della garanzia ex 2483 c.c. e quelli che ne sarebbero privi, in quanto “ereditati” a seguito della trasforma- zione regressiva.

Presupponendo che la delibera di trasformazione mantenga le caratteristiche del prestito obbligazionario, conformando sulle obbligazioni gli emittendi titoli di debito anche relativamente al regime circolatorio (18), questa soluzione ha il pregio di soddisfare pressoché ogni possibile variante di trasformazione; lascia irrisolto unicamente il problema – esaminato nel paragrafo precedente – della tutela del socio-obbligazionista nel caso di emissione di obbligazioni eccedente i limiti di legge, socio che divenendo titolare di titoli di debito vede peggiorare le garanzie che assistono il proprio credito. In ogni altra situazione, salvo valutare il costo economico, presumibilmente non lieve, di una simile garanzia, dal punto di vista giuridico si aprono scenari impensabili sino a prima della riforma: non è così anomalo immaginare una situazione nella quale la proprietà, che gode della fiducia di alcuni istituti bancari, scelga di approdare al modello s.r.l. per ragioni contingenti chiedendo, in altra forma, proprio ad una di quelle banche, di “garantire” il prestito obbligazionario emesso e “trasformato” in titoli di debito; il costo della garanzia, tra l’altro, potrebbe essere contenuto entro limiti ragionevoli introducendo apposite clausole sulla circolazione dei titoli, quali ad esempio lock up contrattati tra il socio-creditore della società, in quanto originariamente sottoscrittore delle obbligazioni, e la banca stessa.

Quella in esame potrebbe rappresentare una soluzione vincente anche nel caso di cui al paragrafo precedente, poiché la garanzia volontaria prestata dall’investitore professionale potrebbe essere estesa anche al socio/obbligazionista, così eliminando lo scalino normativo tra gli artt. 2412 e 2483 c.c..

La flessibilità della soluzione appena illustrata si coglie ancor meglio ove essa, se condivisa, sia affiancata da una oculata predisposizione del regolamento del prestito obbligazionario. Se infatti quest’ultimo prevedesse che le obbligazioni, in caso di trasformazione regressiva in s.r.l., possano automaticamente essere convertite in titoli di debito, purché assistite dalla garanzia ex lege dell’investitore qualificato (19), non solo gli obbligazionisti in genere non potrebbero in alcun modo avversare la trasformazione, ma nessuno di loro potrebbe impedirla anche se fosse azionista e sottoscrittore/detentore di obbligazioni emesse eccedendo i limiti, assistite dalla garanzia ex art. 2412, comma secondo. In tal caso, infatti, l’azionista sottoscrittore/acquirente delle obbligazioni avrebbe sin dall’inizio accettato il “rischio” del deterioramento delle garanzie che assistono il prestito in caso di trasformazione – il riferimento è al minor ambito operativo della garanzia ex art. 2483 rispetto a quella ex art. 2412, comma secondo – e non si porrebbe alcun problema di ricerca del suo consenso, in qualità di obbligazionista, alla trasformazione.

Si pone allora un interrogativo che spinge ancora oltre il limite della fattispecie: se sia possibile emettere un prestito obbligazionario prevedendo nel regolamento che le obbligazioni, in caso di trasformazione in s.r.l., possano convertirsi in titoli di debito non assistiti dalla garanzia sulla solvenza dell’investitore qualificato.

Analizzando la questione con la visuale del singolo obbligazionista la risposta non potrebbe che essere affermativa, per le stesse ragioni appena illustrate: la proposta di sottoscrizione del debito formulata dalla società già contiene ab origine l’eventualità di un deterioramento della garanzia del credito e ciò esclude in radice qualsiasi possibilità di contestazione del creditore stesso. Muovendo su di un piano generale, però, la questione appare di ardua soluzione: argomentare – recuperando una delle tesi tradizionali ma minoritarie già ante riforma – sul dato formale, ossia che i titoli non sarebbero “emessi” in senso proprio, ma semplicemente “ereditati” o “assunti” dalla società tra- sformata, pare troppo debole e formalistico; ancora più debole alla luce della scelta inderogabile di caratterizzare la possibilità di finanziamento della s.r.l. mediante emissione di titoli di massa con un regime di circolazione particolarmente garantista, nel quale cioè proprio tale garanzia pare imprescindibile. Per quanto i terzi potenziali acquirenti dei titoli di debito – ex obbligazioni – difficilmente deciderebbero il loro investimento senza prendere prima cognizione delle condizioni del finanziamento e della complessiva situazione finanziaria della società, una simile considerazione non pare in grado di prevalere sulla ratio della scelta legislativa.

Non sembrano invece da indagare, al momento, gli scenari legati all’esistenza di un prestito obbligazionario convertibile, in quanto l’opinione assolutamente prevalente (20) nega la possibilità di emissione/assunzione, da parte di una s.r.l., di titoli di debito convertibili. L’unica possibilità di applicazione di queste riflessioni consisterebbe in una precisa ed attenta regolamentazione del prestito obbligazionario e delle possibilità di conversione: prevedendo, ad esempio, che in caso di trasformazione regressiva le obbligazioni perdano la possibilità di conversione e siano tramutate in “semplici” titoli di debito; od ancora ipotizzando che le finestre di conversione possano essere anticipate, ponendo l’obbligazionista, in caso di trasformazione in s.r.l., davanti alla secca alternativa di convertire, prima della trasformazione, o perdere tale facoltà divenendo titolare di titoli di debito “semplici”.

 

(1) Cass. 14 febbraio 1995, n. 1574, in Giust. civ., 1995, I, 1833: “L’art. 2486, comma 3, c.c., il quale non con- sente l’emissione di obbligazioni alla società a responsabilità limitata, esprime, a difesa degli interessi generali inerenti all’accesso al mercato del risparmio, la scelta legislativa di consentire il ricorso al prestito obbligazionario solo alla società su base azionaria, e quindi stabilisce per la prima società una situazione di incompatibilità con il detto prestito non solo in relazione al suo momento genetico (emissione delle obbligazioni) ma in tutte le sue successive fasi e sino a quando i titoli vengano a scadere e siano pagati ai legittimi presentatori. Ne deriva che, in pendenza del suddetto prestito obbligazionario, la società per azioni non può trasformarsi in società a responsabilità limitata, con la conseguente nullità, per violazione di norme imperative, della relativa delibera di trasformazione presa in detto periodo”.

In dottrina vedi per tutti G. F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni, in Tratt. delle soc. per azioni, diretto da G.E. COLOMBO e G.B. PORTALE, Torino, 1988, vol. 5, p. 379 ed ivi p.437 ss..

(2) Vedi ampiamente G. F. CAMPOBASSO, op. cit., p. 470 e N. Abriani, Prestito obbligazionario e limiti “impliciti” alla trasformazione delle società, in Giur. comm., 1996, II, 760 ed ivi p. 770 ss..

(3) Già lo evidenziava in sede di primo commento alla riforma un’autorevole dottrina: P. MARCHETTI, Le obbligazioni, in Aa. Vv., Il nuovo ordinamento delle società, a cura di S. Rossi, Milano, 2003, p. 213 ed ivi p. 223.

(4) P. MARCHETTI, op. cit., p. 223.

(5) P. MARCHETTI, op. cit., p. 223; A. GIANNELLI, Commento all’art. 2413, in Commentario alla riforma delle società, a cura di P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2006, p. 165 ss.; C. Mosca, Commento all’art. 2499, in Commentario alla riforma delle società, a cura di P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Mi- lano, 2006, p. 57 ss..

(6) Una adeguata disciplina statutaria evita ogni possibile dubbio interpretativo; così anche A. GIANNELLI, op. cit., pp. 167-168, che concorda su queste esigenze.

(7) GIANNELLI, op. cit., pp. 105-106, al quale si rimanda per un’ampia casistica che dimostra le rilevanti difficoltà pratiche.

(8) L’esigenza sottesa alla garanzia ex lege poggia principalmente sulla tutela degli “investitori incapaci di valu- tare compiutamente i rischi connessi al finanziamento di una piccola società di capitali come è per lo più la s.r.l.”: così, ad esempio, A. Giannelli, Commento all’art. 2483, in Commentario alla riforma delle società, a cura di P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2006, p. 1337 ed ivi p. 1338.

(9) Nè la possibilità di recedere ex art. 2437 c.c. soddisfa tale istanza, attenendo allo status di socio e non a quello di obbligazionista.

(10) Così la dottrina assolutamente prevalente: vedi, ex multis, A. Giannelli, op. cit., p. 1339, e la dottrina ivi citata.

(11) Con ciò potendosi escludere una qualsiasi modifica delle condizioni del prestito ex art. 2415, comma primo, n. 2.

(12) Così, per tutti, G. F. CAMPOBASSO, op. cit.,, p. 498.

(13) G. FERRI, Prestito obbligazionario, intrasformabilità della società, proroga dell’esercizio sociale, in Riv. dir. Comm., 1986, II, p. 430 ss..

(14) D. PETTITI, I titoli obbligazionari delle società per azioni, Milano, 1964, p. 173 ss.; F. FENGHI, Note critiche sull’art. 2412 c.c., in Riv, soc., 1967, p. 972 ss. e in La riduzione del capitale, Milano, 1974, p. 172 ss..

(15) Vedi in sintesi quanto riportato da N. ABRIANI, op. cit., p. 766 ss. e gli autori ivi citati.

(16) Così, in modo condivisibile, A. GIANNELLI, op. cit., p. 169.

(17) Per primo ipotizza una simile soluzione F. TASSINARI, Il finanziamento della società mediante mezzi diversi

dal conferimento, in AA. VV., La riforma della società a responsabilità limitata, Milano, 2004, p. 117 ed ivi pp. 143- 144 ed in La trasformazione cd. regressiva (da società di capitali in società di persone) e le altre fattispecie di trasformazione cd. omogenea, in AA. VV., La trasformazione delle società, Milano, 2005, p. 125 ed ivi pp. 165. Condividono poi una simile impostazione P. FERRO LUZZI E F. CHIAPPETTA, Fusione e prestiti obbligazionari di società per azioni, in Riv. Soc., 2005 ed ivi pp. 138-139; G. CABRAS, Commento all’art. 2483, in Società di capitali. Commentario, a cura di G. NICCOLINI E A. STAGNO D’ALCONTRES, Napoli, 2004, vol. III, p. 1691 ed ivi p. 1704.

La questione si pone in termini analoghi nell’ambito delle operazioni di fusione e scissione che implicano anche una trasformazione e correttamente, la dottrina più attenta, ritiene applicabile anche ad esse la medesima soluzione: vedi infatti F. MAGLIULO, La fusione delle società, Milano, 2005, p. 291 e S. CACCHI PESSANI, Commento all’art. 2503 bis, in Commentario alla riforma delle società, a cura di P. MARCHETTI, L.A. BIANCHI, F. GHEZZI, M. NOTARI, Milano, 2006, p. 798, per la fusione; G. SCOGNAMIGLIO, La scissione, in Tratt. delle soc. per azioni, diretto da G.E. COLOMBO e G.B. PORTALE, Torino, 2004, vol. 7**2, p. 1 ed ivi p. 308 alla nota 226 per la scissione.

(18) La delibera, per non essere sottoposta al consenso degli obbligazionisti, dovrà lasciare inalterata la struttura del titolo rappresentante il finanziamento (durata, remunerazione ed altro) ed il suo regime circolatorio (senza cioè renderne in alcun modo più difficoltoso il trasferimento).

(19) Del tutto ininfluente sarebbe la circostanza che l’investitore professionale abbia già manifestato all’atto dell’emissione del prestito obbligazionario la sua volontà in tal senso, o che presti la garanzia contestualmente in sede di trasformazione della società: quello che interessa alla legge, per evitare il “doppio regime” circolatorio dei titoli di debito, è che quelli frutto della conversione del prestito siano assistiti dalla garanzia, come se fossero stati emessi ab origine da una qualsiasi s.r.l..

(20) Così la dottrina prevalente: vedi recentemente A. Giannelli, op. ult. cit., pp. 1341-2, ove anche numerosi riferimenti bibliografici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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