Presupposto essenziale del trust è che il disponente perda la disponibilità di quanto conferito in trust, al di là dei poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. Ove la perdita di controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (shame trust) ed in quanto tale non produce gli effetti segregativi che connotano l’istituto.  La Convenzione dell’Aja, con la previsione di cui all’art. 2, accoglie la massima di diritto consuetudinario normanno donner et retenir ne vaut: dare (donner) al trustee e poi trattenere (retenir) non vale. Non è quindi possibile che il disponente conferisca un’obbligazione fiduciaria al trustee senza, in realtà, avergliela conferita affatto, continuando a gestire i beni come se ancora fossero suoi. Un qualsiasi trust interno, anche se retto da leggi che come quella di Jersey, superando la regola donner et retenir ne vaut, in quanto assoggettato all’art. 2 della Convenzione non è riconoscibile. L’inesistenza, l’inefficacia o la nullità dell’atto istitutivo di trust è rilevabile d’ufficio.

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Per l’oggetto delle imprese ed il luogo in cui esse sono esercitate, non è necessario prendere in considerazione le attività effettivamente svolte dalle società, essendo sufficiente il rapporto fra i rispettivi oggetti sociali, risultanti dagli atti costitutivi sottoposti a pubblicità; l’oggetto sociale costituisce, infatti, non solo la sfera di azione tecnica della società, ma anche l’esteriorizzazione della sua potenzialità espressiva ed espansiva, immediatamente percepibile da tutti i soggetti che entrino in rapporto con essa, in forma negoziale o concorrenziale. Continue Reading

Gli Internet Service Providers non sono – almeno stando alla direttiva sul commercio elettronico (artt. 14-17 direttiva 2000/31/CE) – responsabili dei contenuti inseriti dagli utenti sui propri sistemi informatici, salvo che siano essi stessi ad originare i contenuti (tramutandosi, cioè, in Content Providers) o a selezionare o modificare le informazioni trasmesse o memorizzate sui propri sistemi informatici.

E’ relativamente pacifico, in altri termini, che un ISP non possa essere considerato responsabile qualora – agendo esclusivamente quale neutro intermediario fornitore dei servizi – sia totalmente estraneo al contenuto della trasmissione e, quindi, in una posizione non attiva, ma totalmente passiva rispetto a quanto immesso in rete da terzi.

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L’applicazione della clausola simul stabunt simul cadent deve avvenire nel rispetto del principio generale di buona fede e dei doveri di lealtà e correttezza che regolano i rapporti endosocietari. Nei casi in cui sia azionata all’esclusivo fine di determinare l’estromissione di un amministratore – eludendo l’art. 2383 comma 3 c.c., che prevede l’obbligo di risarcire il danno all’amministratore revocato senza giusta causa – l’applicazione non può che essere considerata illegittima ed è conseguente non possibile che venga meno l’obbligo risarcitorio; obbligo posto a carico dei soci che hanno violato la clausola generale di buona fede (il calcolo del danno si esegue alla stregua del caso di revoca dell’amministratore avvenuta senza giusta causa).

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La Cassazione, invertendo l’orientamento precedentemente sostenuto, ritiene valido l’impegno negoziale assunto dai nubendi nell’ottica di  un eventuale “fallimento” del matrimonio. Impegni la cui validità deriva da una qualificazioni nei termini di contratto atipico cui accede una condizione sospensiva, lecita in quanto espressione di autonomia negoziale dei coniugi diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela (art. 1322.2 c.c.).

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“Dopo la riforma della disciplina delle società di capitali di cui al d.lgs. 6/2003, ogni limitazione od esclusione del diritto di opzione attraverso operazioni che siano conseguenza della riduzione del capitale sociale al di sotto dei minimi di legge va esclusa alla luce della espressa salvezza dell’art. 2482 ter c.c. fatta dall’art. 2481 bis, comma 1, c.c. Questa interpretazione trova conferma nella ratio della norma che è stata individuata, dalla relazione ministeriale al predetto testo di legge, nell’intenzione di impedire “prassi non commendevoli che la pratica ha a volte elaborato per ridurre sostanzialmente, o addirittura eliminare, la partecipazione delle minoranze”. (…)

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“La clausola di diseredazione integra un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il testatore, sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il diseredato e restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta destinazione post mortem del proprio patrimonio.

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La Cassazione, con la sentenza 19650/2012, si allinea agli orientamenti più rigorosi nell’interpretazione della legge 55/2010. La legge Reguzzoni-Versace non si presta a dubbi (tralasciando le note problematiche di compatibilità con il diritto doganale europeo ed un difficile allineamento con alcuni dettami comunitari), quantomeno in relazione alla parte in cui stabilisce che la dicitura made in Italy è permessa esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità.

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“Il sequestro civile non è diretto ad impedire la gestione della società, ma solo ad imporre il vincolo sulle quote. Se il Giudice Civile avesse voluto impedire la gestione della società, avrebbe dovuto imporre il sequestro sull’intera azienda e non solo sulle quote.”

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